I] Chi era il brigante Michele Caruso/
Michele Caruso di Torremaggiore fu un celebre capobrigante, che venne arrestato e giustiziato il 13 dicembre 1863 a Benevento dopo aver compiuto molte stragi di civili inermi. Mentre veniva condotto al luogo dell’esecuzione, gli abitanti gli sputavano addosso e gli gridavano “A morte!”, poiché ben sapevano quanto male avesse inflitto alle popolazioni locali.
Com’è noto, molte sono le spiegazioni e le interpretazioni che sono state date sulle origini di quell’imponente e plurisecolare fenomeno che fu il brigantaggio: rivolta sociale ossia lotta di classe, insurrezione per ragioni politiche, criminalità pura e semplice ecc. Volendo trarre un giudizio di sintesi, si può affermare che larga parte degli storici di professione che hanno esaminato il brigantaggio in Italia dal Medioevo sino all’Evo contemporaneo concordi sostanzialmente nel riconoscere al suo interno un intreccio davvero aggrovigliato di cause e sorgenti, che paiono però di massima, statisticamente, riconducibili ad una forma di delinquenza determinata da pessime condizioni di vita e variamente sfruttata e manipolata da gruppi di potere per i propri interessi di fazione. In questo quadro complessivo, che permette d’affermare la natura essenzialmente criminale del brigantaggio (anche se non sempre e necessariamente esclusiva), Michele Caruso costituisce un caso limite.
Infatti un esame della sua personalità e dei suoi comportamenti induce a ritenere che questo brigante fosse non soltanto un criminale, ma un autentico criminale patologico, ciò che oggigiorno si definirebbe un maniaco omicida.
Michele Caruso di Torremaggiore fu un celebre capobrigante, che venne arrestato e giustiziato il 13 dicembre 1863 a Benevento dopo aver compiuto molte stragi di civili inermi. Mentre veniva condotto al luogo dell’esecuzione, gli abitanti gli sputavano addosso e gli gridavano “A morte!”, poiché ben sapevano quanto male avesse inflitto alle popolazioni locali.
Com’è noto, molte sono le spiegazioni e le interpretazioni che sono state date sulle origini di quell’imponente e plurisecolare fenomeno che fu il brigantaggio: rivolta sociale ossia lotta di classe, insurrezione per ragioni politiche, criminalità pura e semplice ecc. Volendo trarre un giudizio di sintesi, si può affermare che larga parte degli storici di professione che hanno esaminato il brigantaggio in Italia dal Medioevo sino all’Evo contemporaneo concordi sostanzialmente nel riconoscere al suo interno un intreccio davvero aggrovigliato di cause e sorgenti, che paiono però di massima, statisticamente, riconducibili ad una forma di delinquenza determinata da pessime condizioni di vita e variamente sfruttata e manipolata da gruppi di potere per i propri interessi di fazione. In questo quadro complessivo, che permette d’affermare la natura essenzialmente criminale del brigantaggio (anche se non sempre e necessariamente esclusiva), Michele Caruso costituisce un caso limite.
Infatti un esame della sua personalità e dei suoi comportamenti induce a ritenere che questo brigante fosse non soltanto un criminale, ma un autentico criminale patologico, ciò che oggigiorno si definirebbe un maniaco omicida.
II] Le stragi ingiustificate di Caruso/
Caruso infatti uccideva per il puro gusto d’uccidere ed era soggetto ad attacchi di follia sanguinaria: “12 marzo 1863 Lungo la via che conduce a Montuoro fu incontrato dalla banda Caruso, Luigi Bianco di Ururi. Caruso, nel vederlo gli disse: Dove vai? e l'altro di rimando; Mi reco in campagna. È meglio che resti qui, caso contrario questo tempaccio ti apporterebbe danno alla salute, e, senza dir altro, lo rese cadavere con un colpo di pistola. Eppure nessun animale uccide pel gusto di uccidere, come faceva Michele Caruso.” [Abele De Blasio, "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio", Stab. Tipografico, Napoli, 1910]
Si possono riportare facilmente molti esempi delle stragi che Michele Caruso compiva ai danni della popolazione civile indifesa: Nel solo settembre 1863, egli fu responsabile di questi atti: “Il giorno 7 [settembre] compì una vera carneficina presso Castelvetere Valfortore: ben 27 persone inermi, vecchi, donne e bambini, furono trucidate. […] Il giorno 9 carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate da 30 a 40 persone. Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. […] Successivamente il Caruso uccise 7 possidenti lungo la via Sannitica, 14 contadini presso Colle, 7 in territorio di Morcone, 6 presso il Cubante, 16 alla masseria Monachella, presso Torremaggiore.” [Fiorangelo Morrone, “Storia di Beselice e dell’alta Valfortore”, Arte Tipografica, Napoli 1993]. Si tenga conto che tutti questi eccidi avvennero in un solo mese d’attività brigantesca.
Il mese seguente, Caruso massacrò senza alcuna ragione 21 pastori. Il 17 ottobre 1863 la banda circondò la masseria Monachiella tra Torremaggiore e Casalvecchio di Puglia, per saccheggiarla. I pastori, che non avevano neppure tentato alcuna difesa e si limitavano ad implorare pietà, furono prima torturati e sfregiati personalmente da Caruso, che segnò loro sulla guancia un segno di croce mediante un rasoio, poi furono sgozzati sempre dal capobrigante e finiti a colpi di sciabola da un altro brigante, tale Nicola Tocci. Su 24 bovari, 21 vennero uccisi e soltanto 3, capricciosamente, risparmiati, affinché potessero riferire che cosa era accaduto. [processo Tocci. Cartella 30 processo N. 164. Tribunale Militare di Guerra Caserta. Archivio Centrale dello Stato Roma]. Pochissimi giorni prima Caruso aveva assassinato una donna inerme. [Archivio storico dello stato maggiore dell’esercito. Roma; G. 11, fs. 42 1863; Giuseppe De Ferrari a Ubaldino Peruzzi, Telegramma Fobbia 14 ottobre 1863; “Banda Caruso oggi trucidava donna inoffensiva masseria Reggente presso Lucera”.]
Questo capobrigante aveva fra l’altro l’abitudine di sperimentare la qualità della polvere da sparo che gli era data da manutengoli sparando addosso ai prima contadini in cui si imbatteva. Ad esempio, il 6 ottobre 1862 si trovava nella località di San Giorgio la Montagna (oggigiorno San Giorgio del Sannio), quando, avendo ricevuto polvere da sparo, ne verificò la qualità fucilando nove contadini. Il suo operato può essere paragonato sotto tale aspetto a quello del quasi omonimo capobrigante Giuseppe Caruso, altro alleato della banda di Crocco, che assassinava spesso contadini nelle sue scorribande per la seguente ragione: “Perché ero certo che la truppa, trovando un morto, si fermava, ed io intanto avvantaggiava su d'essa mezzora di cammino”.
Caruso massacrava indistintamente persone di ogni età, inclusi bambini, come avvenne con l’eccidio della famiglia di Berardino Polzella, di sua moglie Marta Zeoli e dei figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi (di nove anni), Domenico (di sette anni), Michele (di quattro anni), avvenuto perché questi contadini non potevano rifornire la comitiva brigantesca di cibo.
Michele Caruso in diverse circostanze assassinò anche propri subalterni. Era sufficiente fare ritardare gli spostamenti della banda per venire ucciso e lasciato insepolto. Il brigante Agostino Penta, ammalatosi e febbricitante, venne ucciso da Caruso il 25 novembre 1863 sulla montagna di San Giorgio la Molara. Nel 1862, mentre si spostava per portare alcuni suoi uomini feriti nel bosco di S. Croce di Morcone ed in due grotte del Matese provvide ad eliminare personalmente coloro che non poteva trasferire: beninteso, la praticare d’uccidere i complici rimasti feriti in modo grave era comune a tutte le bande brigantesche. Un altro brigante, Giuseppe Pellegrino, fu ucciso con una coltellata da Michele Caruso perché, a digiuno da tempo e caduto in preda di violenti crampi allo stomaco, rimpiangeva d’essersi dato al brigantaggio.
III] Gli assassini di donne incinte e gli stupri/
Caruso si diede anche ad uccidere donne incinte, in questo non diverso da un altro capobanda, il calabrese Catalano, che bruciò viva una femmina gravida. L’aspetto patologico della vicenda è che Caruso assassinava donne incinte proprio perché erano incinte: “quante ne ha rapite ed uccise solo perché stavano per divenire madri!”, scrive Luisa Sangiuolo nel saggio breve “La comitiva del colonnello Caruso” (comparso in "Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880" De Martino, Benevento, 1975). L’incapacità di rapportarsi con l’altro sesso è una caratteristica frequente nei maniaci omicidi, siano essi uomini o donne, cosicché sovente questi pazzi criminali si dedicano ad uccidere persone dell’altro sesso.
Oltre ad uccidere uomini, donne ed animali per puro sadismo, questo brigante era anche un maniaco sessuale, colpevole di moltissimi stupri. Anna Belmonte, contadina di bell’aspetto, il 19 settembre 1862 nella masseria di suo padre subì una rapina da parte di tre briganti della banda Caruso, che saccheggiarono l’abitazione, prima d’andarsene. Costei, fortemente spaventata, andò a rifugiarsi nell’abitazione d’un vicino di casa, tale Saverio Carbone, nella quale però si trovava Caruso, che dopo averla picchiata la violentò davanti alla stessa moglie di Carbone. Dopo lo stupro di Anna Belmonte, Caruso se ne andò e s’imbatté poco più tardi, in vicinanza della masseria S. Auditorio, in una ragazza adolescente. Il capobrigante ordinò a suoi tre briganti di violentarla, il che avvenne davanti alla banda e sodomizzando la giovane. Si noti il particolare che Caruso in questa circostanza non violentò personalmente questa donna, avendone appena stuprata un’altra, ma ordinò ai suoi uomini di farlo: egli non fu mosso quindi dalla volontà di cercare soddisfazione sessuale, ma dal gusto di fare del male. Beninteso, questi sono soltanto alcuni dei casi di stupro compiuti da Caruso o dalla sua banda: ad esempio, nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, una ragazza adolescente fu violentata sino alla morte da quasi tutti i componenti della banda, come attestò in seguito il medico legale.
IV] Le uccisioni d’animali per puro sadismo/
Lo studioso Abele De Blasio, che fece in tempo ancora a raccogliere persino testimonianze orale dirette su questo personaggio, riferisce nel suo volume "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio" [Stab. Tipografico, Napoli, 1910] che il futuro capobrigante quando era ancora un bambino si divertiva a strangolare gli uccellini che suo padre gli dava in regalo. Una volta cresciuto e diventato brigante, continuò a praticare questa sua abitudine di torturare ed uccidere gli animali. Scrive il De Blasio: “Era egli, che pel solo desiderio di vedere soffrire e morire fucilava e bruciava gli animali.” Il sadismo verso gli animali è uno dei tratti distintivi dei maniaci omicidi, che solitamente incominciano da bambini a dare manifestazione delle proprie tendenze in siffatta maniera, per poi passare agli esseri umani.
Come già faceva nell’infanzia, Caruso nella sua attività brigantesca amava uccidere gli animali. Talora questo avveniva per rappresaglia verso chi non si piegava alle sue estorsioni, secondo una pratica che era comunissima nelle bande brigantesche, solite bruciare le abitazioni, i raccolti od uccidere gli animali di chi non accettava di versargli un “pizzo” e soddisfare le loro richieste. Sovente però Michele Caruso massacrava animali senza ragione apparente, esattamente come avveniva con gli esseri umani. Inoltre, l’esecutore materiale delle stragi d’armenti era abitualmente lui, come se provasse diletto a farlo. [ad esempio, il 22 dicembre 1862 presso la masseria De Iulio la banda Caruso aveva ucciso sei buoi. Archivio di stato di Torino. Ministero della guerra. Segretariato Generale. Divisione Gabinetto del Ministro “Affari generali” 1862-1868 brigantaggio, Rapporto di Gustavo Mazé de la Roche, Foggia 6 gennaio 1863].
V] Sevizie e crudeltà, con un caso di possibile cannibalismo/
Sempre nell’ottobre del 1863 questo capobrigante si recò con la sua amante Filomena Ciccaglione (una donna che era stata da lui rapita dopo che il delinquente aveva assassinato il padre) nell’abitazione di un suo “compare” in Puglia. Il cosiddetto “comparaggio” era all’epoca in Italia meridionale un legame molto forte e sentito. Il “compare” accolse amichevolmente Caruso, lo ospitò nella sua abitazione e gli offrì un pranzo. Terminato di mangiare, Michele Caruso, senza alcun motivo apparente, assassinò il “compare” e massacrò anche tutta la sua famiglia. Terminata la strage, il brigante fece letteralmente a pezzi il corpo del “compare” e lo buttò dentro ad una caldaia d’acqua bollente, così lessandolo. Questo comportamento pare alludere a pratiche d’antropofagia, che non erano per nulla ignote a molti briganti, letteralmente cannibali.
Non pago di uccidere, il capobrigante in questione talora torturava, sfregiava o mutilava le vittime: il caso del “compare” fatto a brani è forse un unico nella carriera di questo criminale, ma non mancano i casi di uomini con il viso lacerato con un pugnale od un rasoio, od a cui erano state mozzate le orecchie od una mano.
VI] La “filosofia di vita” di Michele Caruso: l’odio ed il nichilismo/
Durante il processo, questo Caruso, analfabeta, dichiarò ad uno dei giudici quale fosse la sua filosofia di vita: “Ih! Signurì, se avesse saputo legge e scrive, avrìa distrutto il genere umano”. Questa sua celebre affermazione, esaminata fra gli altri anche da Franco Molfese come una delle espressioni più tipiche della mentalità brigantesca, s’intona perfettamente con le azioni da egli compiute, che apparivano ispirate sovente ad un puro e semplice gusto d’uccidere e distruggere per il diletto di farlo, su di uno sfondo d’odio per il genere umano nella sua totalità.
Nessun commento:
Posta un commento