lunedì 11 maggio 2015

GAETANO SALVEMINI, IL RISORGIMENTO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

Gaetano Salvemini, storico e politico, fu per tutta la vita un convinto sostenitore del Risorgimento e dell’Unità. Fu a Rionero in Vulture, nella casa di Giustino Fortunato (meridionalista e meridionale, amico di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini), che nell'ottobre del 1911 venne scelto il titolo "L'Unità" per il nuovo settimanale che Salvemini si apprestava a fondare e dirigere. Fu proprio Fortunato a suggerirlo, con ciò intendendo che questa rivista divenisse uno strumento per un compimento ulteriore dell’Unità nazionale ossia un suo rafforzamento. Il Salvemini, come anche il Fortunato, intendeva infatti l’Unità d’Italia non come un dato statico appartenente al passato, bensì quale una realtà dinamica ed in corso di realizzazione. Il Volpe, un grande storico d’idee politiche lontanissime da quelle di Salvemini, aveva espresso questo concetto nel suo saggio “L’Italia in cammino”, che delineava un processo d’unificazione iniziato ben prima del secolo XIX e che continuava anche dopo il 1861.
Il Salvemini, come tutti gli altri principali storici del periodo risorgimentale, come i due grandi Gioacchino Volpe e Rosario Romeo, non fu una sorta di vuoto apologeta del processo d’unificazione e seppe mostrarne assieme gli aspetti positivi e negativi, le realizzazioni e quello che restava ancora da compiere. Il loro quadro espositivo ed interpretativo risulta quindi inevitabilmente articolato e molteplice, essendo la realtà storica essa stessa tale, sempre e comunque. Tuttavia, al momento del “redde rationem”, Salvemini diede un giudizio favorevole al Risorgimento come storico, mentre come politico sempre sostenne l’unità italiana ed il patriottismo.
Ciò premesso, è possibile ora valutare le cause, secondo Salvemini, della “questione meridionale”. Egli ne indicava tre: 1) uno stato eccessivamente accentrato; 2) la concorrenza dell’economia settentrionale; 3) la struttura sociale feudale del Mezzogiorno.
Egli supponeva quindi tre motivi, uno amministrativo, l’altro economico, il terzo sociale. Esaminiamoli ad uno ad uno.

1) Per ciò che riguarda il primo punto, il Salvemini suggeriva una riforma in senso federale dello stato italiano, poiché egli riteneva che questo avrebbe favorito lo sviluppo di tutte le regioni, del sud, del centro, del nord.
Tuttavia, esiste un’importante corrente storiografica che afferma la positività per il Mezzogiorno dello stato nazionale accentrato. Ad esempio, Emanuele Felice ha spiegato il miglioramento degli indicatori sociali del Meridione a partire dal 1861 in termini di dipendenza da fattori endogeni, ovvero al miglioramento della condizione degli indicatori sociali nazionali: «La categoria interpretativa della “modernizzazione passiva” proposta da Luciano Cafagna appare la più consona per dare conto degli avanzamenti del Mezzogiorno nel campo sociale, forse più di quanto essa non lo sia relativamente al reddito. Il Sud, come già detto, si sarebbe semplicemente avvantaggiato dei miglioramenti del quadro generale, nazionale ed anche internazionale (per quel che riguarda, ad esempio, l’estensione dell’istruzione obbligatoria e di base, oppure la diffusione delle pratiche e delle infrastrutture igieniche e sanitarie); ne avrebbe beneficiato “passivamente”, ovvero senza particolare reattività da parte di autonomi soggetti locali, ed anzi con una certa lentezza, dovuta a condizioni endogene di ordine istituzionale e culturale.»
Lo stesso Salvemini, che pure era un federalista, riconobbe che lo stato accentrato era stato una necessità per l’Italia: «quella monarchia burocratica, rappresentativa, censuaria, era, un secolo fa, il solo ordinamento politico ed amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale».
Si deve inoltre aggiungere che la struttura statale accentrata, sul modello francese, assunta dallo stato italiano al momento dell’Unità era stata adottata anche con il concorso determinante della classe politica ed intellettuale del Meridione. Diversi pensatori settentrionali, come Balbo, Gioberti, Cattaneo, erano unitari in senso federalistico, mentre invece nel Mezzogiorno esisteva una netta prevalenza a favore d’uno stato accentrato sul modello murattiano, ossia napoleonico. Non è un caso che il grande giurista Pasquale Stanislao Mancini, riformatore del diritto internazionale con la sua concezione di stato nazionale, fosse un meridionale (antiborbonico ed emigrato a Torino, dove divenne prestigioso docente universitario).

2) La seconda ipotesi di Salvemini fra le cause della “questione meridionale” è quella definibile del meridionalismo classico, propria anche di Fortunato e Nitti, rivisitata da Gramsci e ripresa dagli storici marxisti, infine definitivamente confutata da Rosario Romeo. Essa riconosce che il divario preesisteva all'Unità, ma sostiene che si sia accentuato dopo di essa, o per le politiche governative sbagliate (quelle della Sinistra storica però, costituita in prevalenza da meridionali), o per la legge del "dualismo economico", ovvero che le aree già più sviluppate sono riuscite ad attrarre in misura maggiore capitali, personale ecc. dal resto d'Italia.
Tuttavia, l’idea del Salvemini di un Mezzogiorno svantaggiato sul piano fiscale e degli investimenti statali da parte dello stato nazionale è stata confutata dallo studioso di statistica ed economista Corrado Gini. Questo studioso, conosciuto internazionalmente per il famoso “indice di Gini” che da lui prende il nome, nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” smontò completamente le teoria del Salvemini e del Nitti su di un Meridione sfavorito nelle politiche economiche dello stato. Il Gini poté respingere le loro ipotesi sulla base di dati oggettivi di ordine matematico, che calcolavano quando il sud versava allo stato centrale e quanto riceveva indietro. L’opera del Gini segnò una pietra miliare nel campo degli studi e dei dibattiti su questo argomento specifico: neppure il Nitti ed il Salvemini lo contraddissero o pretesero di smentirlo.
Anche l’ipotesi del dualismo economico quale puramente dannoso agli interessi del Meridione ha ricevuto poi confutazione da parte di uno dei più grandi, o forse il più grande, degli storici del Risorgimento, ossia il siciliano Rosario Romeo. Questi, che ha prodotto lavori finora insuperati per mole documentaria ed analisi sistematica di fonti, ha potuto provare come in Italia il dualismo economico abbia avuto valenze positive. È vero che il nord ha saputo attrarre a sé personale, capitali ecc. dal sud grazie ad uno sviluppo economico relativamente maggiore, ma è altrettanto vero che in questo modo ha funto da locomotiva per lo stesso sviluppo meridionale.

3) rimane infine la terza ipotesi di Salvemini, che non è sua originale poiché è stata formulata in modo indipendente e con una molteplicità di varianti da moltissimi altri studiosi. Essa individuava nella struttura socioeconomica meridionale, dominata dai latifondisti, con una classe borghese debole e subalterna ed una gran massa di contadini poveri, la causa principale dei mali del sud.
Da questo derivava, secondo il Salvemini, immobilismo economico (per l’assenza di una classe imprenditoriale vera e propria, al posto di latifondisti assenteisti), corruzione ed illegalità (si perpetuava al di fuori della legge un insieme di rapporti di tipo feudale), mancato coinvolgimento nella cosa pubblica della netta maggioranza della popolazione ecc.
Seppure con una grande differenza di prospettive ed analisi, questo “punctum dolens” è stato rilevato praticamente da tutti i maggiori studiosi della questione meridionale: il Fortunato, il Nitti, il Villari, il Franchetti, il Sonnino, il Banfield ed il Putnam, il Cafagna ecc.
Anche se il giudizio di Salvemini sul latifondo meridionale presenta diverse imperfezioni, pure esso coglie certamente nel segno nell’essenziale. Questi faceva notare che l’Unità aveva segnato un mutamento nelle norme legislative ed amministrative, mentre invece le strutture sociali del Mezzogiorno erano rimaste quasi immutate nel loro impianto plurisecolare: proprio per questo egli parlava della necessità di realizzare pienamente l’Unità.
Il predominio nel Mezzogiorno di strutture feudali particolarmente forti e radicate per tutto il periodo compreso fra il secolo XIV ed il XIX è indiscutibile ed ha avuto un ruolo decisivo in fenomeni come l’accentuata polarizzazione dei redditi (con un minuscolo ceto depositario della maggioranza dei beni, quindi con immense schiere di nullatenenti o poverissimi), la debolezza dello stato (dovuto al potere locale di oligarchi), l’insorgere di fenomeni di brigantaggio e delinquenza organizzata (ambedue largamente collusi, se non manovrati, dai latifondisti).

In tutta la sua gigantesca produzione saggistica, il Salvemini non espresse mai alcun rimpianto del reame borbonico, anzi espresse giudizi perentori su di esso, con la durezza descrittiva che lo contraddistingueva. Questo meridionalista così presentava, ad esempio, le condizioni del Mezzogiorno borbonico per ciò che riguardava una infrastruttura apparentemente “minore” e molto trascurata dagli studi storici, quali i cimiteri:
«Nella città di Napoli […] il cimitero destinato alle classi povere consisteva in tanti carnai quanti erano i giorni dell’anno. I cadaveri, in media 200 al giorno, erano portati al cimitero in carri municipali, come spazzatura, e buttati alla rinfusa nel carnaio della giornata, che era chiuso per essere riaperto e riempito l’anno dopo. Nella provincia di Potenza i cimiteri erano sconosciuti. I benestanti avevano le tombe di famiglie nelle chiese […] I poveri erano portati a seppellire e […] buttati giù a imputridire alla rinfusa nel carnaio comune […] Vi erano luoghi in cui i poveri erano buttati in voragini il cui fondo era sconosciuto, oppure erano abbandonati senz’altro fra le erbacce dei così detti cimiteri; i cani vi si raccoglievano per far festino»
(Cfr. Gaetano Salvemini, “Scritti sul Risorgimento”, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda. Feltrinelli editore, Milano 1961; compare nel tomo secondo di Opera omnia di Salvemini, “Scritti di storia moderna e contemporanea”; citazione a p. 469).
Questo meridionalista non fu un apologeta del reame borbonico (nonostante i tentativi fatti da alcuni sedicenti revisionisti d’attribuirgli un tale atteggiamento, appropriandosi di brandelli del loro pensiero e dimenticando tutto il resto).
Salvemini fu un convinto unitario: sostenitore delle idee di Mazzini (a cui dedicò lavori come “Il pensiero e l'azione di Giuseppe Mazzini” e “La formazione del pensiero mazziniano”), ammiratore di Garibaldi, irredentista e favorevole alla guerra contro l’impero asburgico. Il suo lavoro “Scritti sul Risorgimento” offre un quadro del processo unitario che è un insieme di luci e di ombre, com’è inevitabile in ogni fenomeno storico. Pure, il Salvemini sempre difese l’Unità con motivazioni assieme ideali e materiali.

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