La “Divina Commedia” ha tre canti dedicati in modo particolare al tema propriamente politico, che Dante elabora in un contesto di teologia politica: il VI dell’Inferno, il VI del Purgatorio, il VI del Paradiso. Fra questi il più celebre è quello della seconda cantica. Dante e Virgilio stanno salendo sulle balze della montagna del Purgatorio e cercano la strada migliore, quando notano un’anima solitaria. Il grande poeta latino, originario di Mantova, si avvicina allo sconosciuto e si presenta dichiarando la propria provenienza, al che l’altro «surse ver’ lui del loco ove pria stava,/dicendo: "O Mantoano, io son Sordello/de la tua terra!"; e l’un l’altro abbracciava.» Si trattava infatti del poeta Sordello da Goito.
Dopo questa scena, l’Alighieri prorompe in una delle sue famose invettive, di cui il bersaglio è questa volta l’Italia sua contemporanea:
Dopo questa scena, l’Alighieri prorompe in una delle sue famose invettive, di cui il bersaglio è questa volta l’Italia sua contemporanea:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Ciò che il Poeta denunciava e condannava era sia la divisione territoriale dell’Italia, sia, speculare ad essa, la frammentazione intestina in fazioni e consorterie. Egli era stato personalmente testimone e protagonista involontario di un caso di lotte partigiane, con il contrasto fra guelfi e ghibellini prima, tra guelfi bianchi e guelfi neri poi, che si era risolto con la vittoria di una parte sull’altra mediante un tradimento accompagnato da un aiuto straniero. I guelfi neri avevano preferito allearsi con Carlo di Valois, terzogenito del re di Francia che si era presentato a Firenze con un esercito, facendolo entrare fra le mura cittadine con il tradimento e l’inganno. I tragici fatti fiorentini dell’anno 1301 conobbero innumerevoli repliche in un’Italia in cui ci si combatteva sia fra città e città, sia all’interno delle città stesse, poiché la fazione era ritenuta più importante della patria.
Ciò che ha affermato il Poeta è stato ribadito da un grande storico in un suo importante saggio. Piero Pieri è stato probabilmente il maggiore degli storici militari italiani. Nella sua numerosa produzione egli è stato capace di coniugare l’analisi propriamente militare al contesto storico complessivo, essendo ben consapevole dell’interdipendenza reciproca fra ciò che i sociologi definiscono “sistemi”, come ad esempio quello politico, economico, socio-culturale ed appunto militare.
Una delle sue opere principali s’intitola “Il Rinascimento e la crisi militare italiana”, la cui prima edizione risale al 1952 (Einaudi, Torino). In essa, Pieri cerca di rispondere ad un interrogativo di grande rilievo, ovvero, come sia possibile conciliare l’assoluta supremazia europea, anzi europea e mediterranea, dell’Italia nel periodo rinascimentale dal punto di vista economico e culturale da una parte, ed il suo rapido cadere, al principio del secolo XVI, in condizioni di subalternità politica in seguito a ripetute invasioni straniere ed alla definitiva conquista spagnola del regno di Napoli e del ducato di Milano.
La risposta tradizionale a tale quesito consisteva nell’ipotizzare una presunta insufficienza militare italiana, per cui gli eserciti italiani si sarebbero rivelati inferiori a quelli stranieri. Pieri, lucidamente, spiega come tale teoria cada in contraddizione con uno dei principi basilari della ricerca storiografica applicata alla sfera bellica, ovvero alla correlazione inevitabile fra il “sistema militare” e gli altri. È utile riportare alcuni passi della prefazione scritta da Pieri stesso:
La splendida fioritura economica e spirituale dell'Italia nel basso Medioevo e nel Rinascimento termina, o meglio, s'interrompe bruscamente con un grande tracollo che lascia il nostro paese in gran parte in mano allo straniero; ed è come il preludio d'un ormai in frenabile declino in ogni altro campo. Come si spiega la contraddizione intima fra tanta attività, genialità, ricchezza e la serie dei rovesci che porta alla perdita dell'indipendenza Quale tarlo ascoso rode al profondo tutta la struttura della vita italiana? Siamo di fronte a uno di quei grandi problemi che ogni generazione è solita porsi e spera di risolvere o alla luce d'una nuova serie d'indagini e studi o con una sua diversa intelligenza storica ed esperienza politica. Certo, il fatto più appariscente sembra l'inferiorità militare degl'Italiani, che si manifesta dalla calata di Carlo VIII in poi, attraverso una serie di dolorosi rovesci. Ma è vano voler vedere solo il fatto militare, perché la guerra non è che la manifestazione, costi come la politica e l'economia, d'un più vasto e complesso fenomeno; e in ogni caso la guerra non può esser considerata a sé, ma nei suoi rapporti con le altre attività pratiche dello spirito: da esse influenzata, le modifica a sua volta, contribuendo all'evolversi della civiltà e alla trasformazione di tutto l'assetto economico, politico e sociale. (P. PIERI, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, p. 13]
Perciò, egli ha deciso anzitutto di considerare l’economia, la finanza, la struttura sociale e l’apparato politico-giuridico dei diversi stati italiani, per poi procedere ad esaminare anche i loro eserciti ed, infine, le guerre combattute all’epoca. Questo grande storico può quindi aggiungere:
Ora veramente mi parve di scorgere i primi elementi d'una razionale spiegazione del complesso problema; e ora soltanto presi ad esaminare il fenomeno militare, vale a dire una terza forma d'attività pratica dello spirito, ma più strettamente legata a quella politica; e vidi cose assai diverse da quelle narrate usualmente, e mi apparve una fioritura per nulla minore di quella che avevo ammirato negli altri campi; ma anche qui inficiata da un'intrinseca debolezza politica che ne sminuiva non poco il rendimento complessivo: l'organizzazione militare trovava le sue radici nel campo politico, e la politica più che mai stabiliva le premesse dello strumento guerresco e ne condizionava l'impiego, giusta i precetti del Clausewitz: la guerra è la politica continuata con altri mezzi; se la guerra è mal condotta, vuol dire che la politica è manchevole. In questo modo la crisi militare italiana mi si presentava in ben altra guisa, come chiusa di un dramma politico; e d'assai più alto interesse quindi. (PIERI, Il Rinascimento, cit., p. 15)
Infatti, egli ha buon gioco a provare come i diversi stati della penisola disponessero d’apparati bellici certo non inferiori a quelli degli altri paesi d’Europa. Confrontando le armate italiane rispetto a quelle d’Oltralpe, Pieri può dimostrare come: la loro cavalleria leggera fosse in assoluto la migliore, quella pesante superata solo dalla francese, l’artiglieria tecnicamente pari a quella di Francia, ovvero migliore a tutte le altre, l’ingegneria bellica senz’altro da preferirsi ad ogni altra, la fanteria leggera d’altissima qualità. L’unico difetto, seppur grave, era dato da una fanteria pesante di valore diseguale, in cui convivevano reparti eccellenti con altri mediocri o persino pessimi. Si può però ancora aggiungere come i comandanti italiani fossero in generale ottimi, tanto che la strategia e la tattica dell’epoca furono in buona misura elaborate proprio da loro. Non si devono neppure trascurare due altri fattori di considerevole importanza, quale la piena supremazia navale e la disponibilità di ben maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle di qualsivoglia altro stato europeo.
Pertanto, spiega Pieri, la debolezza italiana non era strettamente militare, bensì squisitamente politica. L’Italia, nonostante i suoi primati nell’arte e nella letteratura, nella scienza e nell’economia, era divisa in numerosissimi stati e staterelli, in feroce rivalità reciproca. Inoltre, i diversi principati italiani erano ulteriormente frammentati al loro interno da contrasti fra contado e città, fra città subalterne e città dominante, tra diverse fazioni dell’aristocrazia. In breve, gli italiani, dinanzi alle invasioni nemiche, furono sempre divisi fra loro, divenendo così facile preda della Francia e della Spagna, paesi sotto molti aspetti inferiori all’Italia, certamente non superiori dal punto di vista militare, ma provvisti d’una organizzazione politica unitaria e d’una forte coesione nazionale.
Accadde così che tutte le conquiste straniere, ovvero tutte le battaglie che si tradussero in sconfitte italiane, videro il contributo decisivo di stati italiani, che preferirono allearsi all’invasore. Non si deve neppure dimenticare come l’oro italiano servisse a finanziare gli eserciti stranieri, mentre l’abilità diplomatica dei governi della penisola contribuisse ulteriormente ai successi francesi e spagnoli. Gli anni compresi fra il 1494, anno della calata di Carlo VIII, ed il 1530, quando la caduta di Firenze suggellò definitivamente l’egemonia iberica in Italia, assistettero allo spettacolo d’italiani divisi fra loro, in guerra gli uni contro gli altri, ciò che rappresentò senz’altro la causa prima e fondamentale dell’asservimento agli stranieri.
Il nostro storico può così scrivere nella conclusione del suo grande lavoro:
«In realtà, la crisi militare italiana del Rinascimento non era il risultato di una pervertita consuetudine guerresca, ma bensì un aspetto, notevole e interessante al massimo grado, della più generale e profonda crisi costituzionale dell’intera penisola, la quale doveva dolorosamente risolversi nella più vasta crisi della libertà italiana.» (PIERI, Il Rinascimento, cit., p. 615)
Piero Pieri, ha così potuto, scrivendo Il Rinascimento e la crisi militare italiana, provare come la conquista d’Italia da parte degli stranieri non sia stata dovuta ad una presunta natura imbelle e vile degli italiani, i quali erano anzi all’epoca fra i migliori combattenti d’Europa, bensì alla loro cronica mancanza di senso nazionale. Proprio ciò condusse alla lunga fase della supremazia spagnola in Italia, causa non ultima d’un secolare declino.
L’esempio storico illustrato con autentica maestria dal Pieri potrebbe essere esteso a gran parte della storia nazionale italiana posteriore alla caduta di Roma. Se si esaminano le vicende storiche italiane negli ultimi quindici secoli circa si ritrovano con frequenza invasioni straniere appoggiate o talora richieste da alcuni italiani per schiacciare altri italiani loro rivali. L’Italia, paese senz’altro superlativo nei campi più diversi, non ha però saputo esprimere per molto, troppo tempo un’autentica coesione ed unità dinanzi alle minacce ed invasioni provenienti dall’esterno, anzi gli italiani si sono spesso e volentieri divisi in fazioni differenti, appoggiandosi a stranieri, ed in tal modo hanno finito col fare il proprio stesso male.
Si vorrebbe sperare che questo tratto ricorrente della storia italiana appartenga al passato, ma purtroppo questo non è vero, in quanto il secondo dopoguerra ha visto nuovamente gli italiani dividersi in filoamericani e filosovietici, similmente a come in passato ci si suddivideva, ad esempio, in filofrancesi e filospagnoli, oppure in guelfi e ghibellini ecc. Oggigiorno esiste in l’Italia un rapporto di sudditanza, culturale e psicologica prima ancora che politica, nei confronti d’alcune potenze straniere, con la conseguenza rilevante di porsi da sé in posizione subalterna e privarsi d’una propria sovranità. La faziosità e la consorteria non sono purtroppo sparite, anzi conoscono una reviviscenza preoccupante, per cui molti non si preoccupano affatto di danneggiare il proprio paese pur di favorire il proprio partito.
L’origine di questo male secolare è l’anteposizione della fazione alla nazione, il considerare nemico l’italiano con un’origine geografica od idee politiche differenti dalle proprie. Sarebbe opportuno che gli italiani, razionalmente, giudicassero la nazione anteriore e primaria rispetto alle distinzioni partitiche od ideologiche, che sono posteriori e secondarie.
Nella lunghissima storia italiana, più che due volte millenaria, si ritrova una grande continuità culturale ed etnica ossia nazionale, contrapposta ad una (inevitabile) varietà di dottrine politiche: monarchici e repubblicani, centralisti e federalisti, cattolici e laici, fascisti ed antifascisti, guelfi e ghibellini ecc. Pretendere d’identificare la patria con un partito od una fazione è posizione abusiva ed impossibile, che inoltre porta inevitabilmente al conflitto intestino. Si appartiene ad uno stesso popolo per ragioni culturali ed etniche, non certo per l’adeguarsi ad un insieme di mutevoli opinioni politiche, che sono condivise solo da alcuni ma non da tutti e che hanno un’origine storica più recente della nascita dell’Italia.
Bisogna quindi che gli italiani riconoscano come ciò che li unisce quali membri di una sola e medesima nazione è più importante di quel che li distingue quali appartenenti a gruppi politici differenti. Altrimenti, saremo costretti a sperimentare di nuovo ciò che Dante aveva vissuto personalmente.
Si vorrebbe sperare che questo tratto ricorrente della storia italiana appartenga al passato, ma purtroppo questo non è vero, in quanto il secondo dopoguerra ha visto nuovamente gli italiani dividersi in filoamericani e filosovietici, similmente a come in passato ci si suddivideva, ad esempio, in filofrancesi e filospagnoli, oppure in guelfi e ghibellini ecc. Oggigiorno esiste in l’Italia un rapporto di sudditanza, culturale e psicologica prima ancora che politica, nei confronti d’alcune potenze straniere, con la conseguenza rilevante di porsi da sé in posizione subalterna e privarsi d’una propria sovranità. La faziosità e la consorteria non sono purtroppo sparite, anzi conoscono una reviviscenza preoccupante, per cui molti non si preoccupano affatto di danneggiare il proprio paese pur di favorire il proprio partito.
L’origine di questo male secolare è l’anteposizione della fazione alla nazione, il considerare nemico l’italiano con un’origine geografica od idee politiche differenti dalle proprie. Sarebbe opportuno che gli italiani, razionalmente, giudicassero la nazione anteriore e primaria rispetto alle distinzioni partitiche od ideologiche, che sono posteriori e secondarie.
Nella lunghissima storia italiana, più che due volte millenaria, si ritrova una grande continuità culturale ed etnica ossia nazionale, contrapposta ad una (inevitabile) varietà di dottrine politiche: monarchici e repubblicani, centralisti e federalisti, cattolici e laici, fascisti ed antifascisti, guelfi e ghibellini ecc. Pretendere d’identificare la patria con un partito od una fazione è posizione abusiva ed impossibile, che inoltre porta inevitabilmente al conflitto intestino. Si appartiene ad uno stesso popolo per ragioni culturali ed etniche, non certo per l’adeguarsi ad un insieme di mutevoli opinioni politiche, che sono condivise solo da alcuni ma non da tutti e che hanno un’origine storica più recente della nascita dell’Italia.
Bisogna quindi che gli italiani riconoscano come ciò che li unisce quali membri di una sola e medesima nazione è più importante di quel che li distingue quali appartenenti a gruppi politici differenti. Altrimenti, saremo costretti a sperimentare di nuovo ciò che Dante aveva vissuto personalmente.


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