giovedì 16 luglio 2015

TRIESTE 1868. UN MASSACRO DIMENTICATO DI ITALIANI
Il ben noto ordine dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo, dato il 12 novembre 1866 al consiglio della corona, di procedere «nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno» si tradusse concretamente in una molteplicità di misure contro gli italiani. Uno degli strumenti più importanti impiegati dall’impero per la snazionalizzazione del gruppo etnico italiano era il sistema d’istruzione, poiché l'insegnamento era naturalmente, allora come oggi, una forma essenziale di trasmissione e conservazione della cultura nazionale. La questione scolastica meriterebbe da sola un saggio intero e non può assolutamente essere qui affrontata, cosicché qui ci si limiterà ad una sintesi.
Il diritto per le singole nazionalità ad avere un ciclo scolastico nella propria lingua venne ad essere teoricamente sancito dall’articolo 19 della Legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini, nei regni e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero. Esso però veniva interpretato sostenendo che non imponesse un ciclo educativo completo nella singola lingua nazionale. Inoltre questa legge, come altre riguardanti la lingua nazionale, diveniva d’applicazione ed interpretazione enormemente complesse per la grande mescolanza etnica nell’impero e la pluralità di categorie e concetti linguistici a cui si faceva riferimento: Muttersprache, Umgangsprache, Vermittlungssprache, Geschäftssprache, landesübliche Sprache, Amtssprache innere, Amtssprache äussere ... Sovente si discuteva sulla definizione stessa di questi concetti e questo era comunque solo il primo passo, poiché poi bisogna applicarli ai moltissimi casi concreti d’un impero multietnico. Si rivendicavano così scuole in una determinata lingua sulla base della lingua materna, o di quella d’uso, o di quella adoperata da comunità etniche differenti per comprendersi fra loro, od anche di quella amministrativa ecc. Di fatto, l’articolo 19 era applicato alquanto arbitrariamente, sulla base dei rapporti di forza politici.
Le unità amministrative in cui vivevano quasi tutti gli italiani sudditi imperiali nel 1866-1914 erano il Tirolo del sud (il Trentino), il Litorale (la Venezia Giulia), la Dalmazia. I gradi od ordini in cui era suddiviso il sistema scolastico erano di massima i tre ancora oggi in uso: il primario, in cui si apprendono le basi dell’istruzione scritta (paragonabile alla vecchia scuola elementare italiana); il secondario, in cui si riceve una preparazione professionale specifica (analogo al ciclo di studi che in Italia prende il nome di studi superiori di primo e secondo grado, ossia alla vecchia media ed alle superiori); infine il terziario, per la preparazione ad alto livello (l’università).
La situazione peggiore si ritrovò in Dalmazia, in cui quasi tutte le scuole italiane finirono chiuse nel giro di pochi anni. Questa regione era suddivisa in 84 comuni e rimasero scuole elementari ossia di primo grado in lingua italiana soltanto nel comune di Zara (1 comune su 84!), mentre fra le scuole superiori ossia di secondo grado permasero in lingua italiana un istituto a Ragusa ed uno a Cattaro (2 comuni su 84!) e si trattava in entrambi i casi d’un solo istituto, una scuola nautica.
Anche nel Trentino-Alto Adige si ebbero tentativi di cancellare la cultura italiane nelle scuole, anche se meno incisivi. Già nel 1866 il luogotenente del Tirolo, il principe Lobkovitz, ed il consigliere aulico a Trento, il conte Hohenwart, avessero intrapreso un programma scolastico in lingua tedesca per la zona del Trentino ed al contempo alla germanizzazione della zona mistilingue posta a nord di Salorno. A dimostrazione della continuità di questa politica, nel gennaio del 1886 l’allora luogotenente del Tirolo, Widmann, scrivendo al primo ministro Taaffe sosteneva che la germanizzazione rientrava fra gli interessi generali dello stato imperiale e difendeva i tentativi di germanizzare le scuole nel Trentino. Nell’unità amministrativa detta del Tirolo, sia nel Trentino, sia nell’area mistilingue a settentrione di Salorno, presero ad operare associazioni nazionalistiche germaniche, quali il Comité zur Unterstutztung der deutschen Schule in Welschtirol, il Deutscher Schulverein, il Tiroler Volksbund, che poterono fare affidamento sull’appoggio delle autorità politiche. Il Comitè, creato nel 1867 e che si proponeva il sostegno alle istituzioni scolastiche in lingua tedesca nel Trentino, ricevette un finanziamento personale da parte di Francesco Giuseppe d’Asburgo.
A Trieste ed in generale nel Litorale (il termine amministrativo adoperato ufficialmente dalla Restaurazione per indicare la Venezia Giulia) l’apparato governativo favorì il più possibile gli istituti in lingua tedesca o slovena, a discapito di quelli in lingua italiana. Un semplice dato numerico riguardante i finanziamenti può chiarire ciò che avvenne. Nel bilancio dell'istruzione pubblica statale per il primo semestre del 1914, le spese preventivate nel cosiddetto Litorale vedevano 1.121.020 corone destinate a scuole non italiane e 154.642 corone per scuole italiane. Questo avveniva in una regione in cui, secondo gli stessi censimenti austriaci, gli Italiani costituivano la maggioranza. A Trieste, in linea di principio, le scuole comunali erano in lingua italiana, quelle statali erano invece in lingua tedesca. La distinzione è rivelatrice: il comune di Trieste, controllato dai liberali italiani, seguiva una politica, lo stato imperiale, in cui invece gli italiani erano una piccolissima minoranza, ne seguiva un’altra del tutto opposta.
Si deve aggiungere che persino i libri di testo furono soggetti a severe forme di controllo e di censura, con estremi che videro l’imposizione dello studio della letteratura italiana su testi tradotti dal tedesco oppure la proibizione di studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta "troppo italiana".
Per queste ragioni gli italiani si posero fra i loro obiettivi principali la promozione di istituti scolastici ed educativi destinati alla difesa della propria cultura ed identità.
A Trieste, tra il 10 e il 12 luglio 1868, vi furono pacifiche manifestazioni a favore della libertà d'insegnamento successive a una petizione firmata da 5.858 cittadini e presentata al consiglio cittadini, in cui si richiedeva il diritto di usare la lingua italiana nelle scuole statali. A queste richieste, condotte in piena legalità, i nazionalisti sloveni e le autorità imperiali fra loro alleati risposero con la violenza.
Il 12 luglio, si celebrava la festa dei SS. Ermacora e Fortunato, con gran afflusso di folla a Rojano, che in quell'epoca era un villaggio abitato da sloveni e nel quale si era deciso di festeggiare l’anniversario della fondazione del reparto militare locale, appunto i territoriali del borgo. Durante i festeggiamenti, svoltisi alla presenza degli ufficiali della milizia e dei miliziani, erano giunti anche altri sloveni di paesi dell’entroterra quali S. Giovanni e Longera. Esaltati dai discorsi nazionalistici, avevano deciso di scendere a Trieste.
Partì così il giorno seguente una minacciosa parata in armi attraverso via del Torrente (ora Carducci) e l'Ac¬quedotto, con gli ufficiali della milizia, in divisa, tra i partecipanti. Marciavano in coda altri militi della territoriale, in uniforme, quasi a fare da scorta. In testa era stata posta quella che gli sloveni ed i croati consideravano la bandiera nazionale degli slavi (il tricolore bianco, rosso, blu), il cui impiego nell’impero asburgico era consentito mentre veniva rigorosamente proibito quello del tricolore nazionale italiano. A Trieste si era frattanto diffusa fra la popolazione la paura per l’aggressione imminente, la cui notizia era pervenuta. Correvano voci per la città che gli sloveni sarebbero venuti per attaccare gli italiani, in particolare gli ebrei, molto odiati nel contado.
L’aggressione era però appoggiata dalle autorità imperiali, nelle persone del luogotenente del Litorale, Eduard Freiherr von Bach, e del comandante della polizia di Trieste, il famigerato Krauss. Non solo nessun tentativo venne fatto per fermare la massa dei miliziani territoriali sloveni, ma essa fu rafforzata da reparti delle guardie di Trieste. Le autorità imperiali sapevano benissimo che la grande maggioranza della cittadinanza triestina era d’idee nazionali italiane, a differenza degli sloveni che erano invece sostenitori dell’impero che li appoggiava e favoriva, pertanto avevano deciso di sfruttare la circostanza per “impartire una lezione” agli italiani.
Nella notte del 13 luglio si trovavano alcune centinaia di italiani nella zona centrale dei Portici di Chiozza: contro di loro fu predisposto un piano operativo preciso per massacrarli.
L’intento era di assalire gli italiani nella zona dei Portici, ributtandoli lungo via del Torrente (ora via Carducci), verso la stazione, per poi aggredirli con reparti provenienti dalle caserme (ora piazza Oberdan) da un lato e, dall'altro, da reparti spostati nella notte dal posto di guardia di via dei Gelsi (ora via F.lli Nordio) lungo l'attuale via Crispi, alle spalle dei Portici. Reparti militari minori avrebbero bloccato la Corsia Stadion (attuale via Battisti) e l'Acquedotto, nonché via San Francesco. Sarebbe stata libera così una sola via di fuga in direzione di piazza San Giovanni. Furono concentrati inoltre gruppi di violenti nella zona della vecchia Dogana (tra l'attuale piazza della Posta e via Geppa) in modo da provocarvi delle risse.
Dopo questa accurata preparazione, fu infine dato il segnale d’attacco mediante uno sparo. I miliziani sloveni ed i poliziotti aggredirono gli italiani, pacificamente riuniti, senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione. L’assalto militare fu compiuto con le sciabole ed i fucili a baionetta inastata.
Comandava il reparto un ufficiale che aveva svolto operazioni di repressione contro i patrioti nel Veneto prima del 1866, il quale guidò l’assalto gridando: «Dagli, dagli giù a questi cani! Ammazzateli: rispondo io!». I territoriali sloveni invece urlavano: «Morte agli italiani ed agli ebrei maledetti».
Il pogrom contro gli italiani provocò la morte del barone Rodolfo Parisi, del cadetto sottufficiale Francesco Sussa (era in borghese ed in licenza e fu ucciso da un colpo di fucile alle spalle mentre fuggiva) e dell’operaio Niccolò Zecchia. Il barone Parisi fu trafitto con 25 colpi di baionetta e finito con uno stocco in dotazione alle guardie imperiali. Anche il giovane (aveva 23 anni) Emilio Bernardini, figlio di un noto commerciante triestino, morì per i postumi di un violento pestaggio subito in quella circostanza, quando fu duramente percosso con colpi di calcio di fucile al torace. Ciò gli aveva provocato una emotisi, che lo aveva ridotto ad una lunga agonia durata per 54 giorni prima della morte.
Inoltre furono feriti gravemente, Ignazio Puppi, Giobatta Lucchini Giovanni Krammer, Pietro Bellafronte, Antonio Rustia. Emiiio Rupnik, Edoardo Offacio, Giulio Cazzatura, Giacomo Katteri, Giuseppe Santinelli, Pietro Mosettig. Giovanni Stancich, Giuseppe Benporath della comunità ebraica cittadina, Teodoro Damillo. Nicolo Modretzky, Giovanni Schmutz, Edgardo Rascovich, Angelo Crosato, Luigi Grusovin, Ernesto Ehrenfreund, persino il cittadino svizzero Gaspare Hans. I feriti “leggeri” furono invece circa 200 (duecento).
Il massacro provocò comprensibilmente sgomento nella popolazione italiana. Fu indetta una giunta speciale della Dieta triestina ed il solo funerale del barone Parisi, svoltosi nella cattedrale di San Giusto, raccolse 20 mila persone.
Non per questo cessò la politica di de-italianizzazione dell’impero (che sempre rifiutò la fondazione di una università italiana) e la violenza politica contro gli italiani. Giusto per portare un altro esempio attinente a Trieste, il 13 marzo del 1913 un gruppo di membri della società universitaria slovena “Balcan” condusse una sorta di spedizione paramilitare contro la Scuola Superiore di Commercio Pasquale Revoltella, che culminò con una sparatoria in cui uno studente italiano venne ferito a morte.
Casi analoghi avvenivano anche lontano da Trieste. Sin dal 1848 gli Italiani di Trieste sollecitavano l’apertura di una università italiana nella grande città costiera, per dimensioni la terza dell’impero, dopo Vienna e Praga, ma tale richiesta fu sempre respinta. Infine, nel 1904, dopo un’attesa di 56 anni, Vienna concesse la fondazione non di una università, ma soltanto di una facoltà di giurisprudenza in lingua italiana, e non a Trieste, bensì nella lontana e germanica Innsbruck. Già questa scelta palesava la volontà austriaca d’impedire il più possibile la formazione e conservazione della cultura italiana nei propri territori.
Comunque, il 3 novembre del 1904 diverse centinaia di studenti italiani si trovavano ad Innsbruck per assistere all’apertura dell’anno universitario di tale facoltà di giurisprudenza. Tuttavia, al loro arrivo nella città austriaca, i nazionalisti e pangermanisti locali diedero aperta prova della loro ostilità verso la fondazione di tale facoltà. La polizia di Innsbruck, su pressioni delle autorità politiche locali, entrò nell’aula, in cui il professor Angelo de Gubernatis stava tenendo il discorso inaugurale, ordinando d’interrompere la cerimonia.
Gli studenti italiani si limitarono allora ad offrire un banchetto in onore del prof. de Gubernatis, per giunta con previo accordo delle autorità. Ciò bastò tuttavia a suscitare la reazione violentissima degli abitanti di Innsbruck, i quali compirono una specie di insurrezione. Gli italiani presenti in città furono scacciati ed i loro beni saccheggiati, mentre gli studenti furono circondati all’interno della sede università e stretti d’assedio con armi da fuoco. Intervenne infine l’esercito, il quale però arrestò tutti gli studenti italiani (fra cui Cesare Battisti ed Alcide De Gasperi), malgrado questi non avessero compiuto alcun reato e si fosse limitati a difendersi dall'aggressione violentissima dei cittadini di Innsbruck, che non patirono invece arresti. In seguito a tale pogrom anti-italiano fu poi ordinata la chiusura della facoltà di giurisprudenza.
Beninteso, questi furono solo alcuni dei moltissimi episodi di violenza politica di cui furono vittime gli italiani nel periodo 1848-1918 nei territori controllati dall’impero asburgico.

venerdì 15 maggio 2015

MICHELE CARUSO. UN MANIACO OMICIDA

I] Chi era il brigante Michele Caruso/
Michele Caruso di Torremaggiore fu un celebre capobrigante, che venne arrestato e giustiziato il 13 dicembre 1863 a Benevento dopo aver compiuto molte stragi di civili inermi. Mentre veniva condotto al luogo dell’esecuzione, gli abitanti gli sputavano addosso e gli gridavano “A morte!”, poiché ben sapevano quanto male avesse inflitto alle popolazioni locali.
Com’è noto, molte sono le spiegazioni e le interpretazioni che sono state date sulle origini di quell’imponente e plurisecolare fenomeno che fu il brigantaggio: rivolta sociale ossia lotta di classe, insurrezione per ragioni politiche, criminalità pura e semplice ecc. Volendo trarre un giudizio di sintesi, si può affermare che larga parte degli storici di professione che hanno esaminato il brigantaggio in Italia dal Medioevo sino all’Evo contemporaneo concordi sostanzialmente nel riconoscere al suo interno un intreccio davvero aggrovigliato di cause e sorgenti, che paiono però di massima, statisticamente, riconducibili ad una forma di delinquenza determinata da pessime condizioni di vita e variamente sfruttata e manipolata da gruppi di potere per i propri interessi di fazione. In questo quadro complessivo, che permette d’affermare la natura essenzialmente criminale del brigantaggio (anche se non sempre e necessariamente esclusiva), Michele Caruso costituisce un caso limite.
Infatti un esame della sua personalità e dei suoi comportamenti induce a ritenere che questo brigante fosse non soltanto un criminale, ma un autentico criminale patologico, ciò che oggigiorno si definirebbe un maniaco omicida.

II] Le stragi ingiustificate di Caruso/
Caruso infatti uccideva per il puro gusto d’uccidere ed era soggetto ad attacchi di follia sanguinaria: “12 marzo 1863 Lungo la via che conduce a Montuoro fu incontrato dalla banda Caruso, Luigi Bianco di Ururi. Caruso, nel vederlo gli disse: Dove vai? e l'altro di rimando; Mi reco in campagna. È meglio che resti qui, caso contrario questo tempaccio ti apporterebbe danno alla salute, e, senza dir altro, lo rese cadavere con un colpo di pistola. Eppure nessun animale uccide pel gusto di uccidere, come faceva Michele Caruso.” [Abele De Blasio, "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio", Stab. Tipografico, Napoli, 1910]
Si possono riportare facilmente molti esempi delle stragi che Michele Caruso compiva ai danni della popolazione civile indifesa: Nel solo settembre 1863, egli fu responsabile di questi atti: “Il giorno 7 [settembre] compì una vera carneficina presso Castelvetere Valfortore: ben 27 persone inermi, vecchi, donne e bambini, furono trucidate. […] Il giorno 9 carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate da 30 a 40 persone. Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. […] Successivamente il Caruso uccise 7 possidenti lungo la via Sannitica, 14 contadini presso Colle, 7 in territorio di Morcone, 6 presso il Cubante, 16 alla masseria Monachella, presso Torremaggiore.” [Fiorangelo Morrone, “Storia di Beselice e dell’alta Valfortore”, Arte Tipografica, Napoli 1993]. Si tenga conto che tutti questi eccidi avvennero in un solo mese d’attività brigantesca.
Il mese seguente, Caruso massacrò senza alcuna ragione 21 pastori. Il 17 ottobre 1863 la banda circondò la masseria Monachiella tra Torremaggiore e Casalvecchio di Puglia, per saccheggiarla. I pastori, che non avevano neppure tentato alcuna difesa e si limitavano ad implorare pietà, furono prima torturati e sfregiati personalmente da Caruso, che segnò loro sulla guancia un segno di croce mediante un rasoio, poi furono sgozzati sempre dal capobrigante e finiti a colpi di sciabola da un altro brigante, tale Nicola Tocci. Su 24 bovari, 21 vennero uccisi e soltanto 3, capricciosamente, risparmiati, affinché potessero riferire che cosa era accaduto. [processo Tocci. Cartella 30 processo N. 164. Tribunale Militare di Guerra Caserta. Archivio Centrale dello Stato Roma]. Pochissimi giorni prima Caruso aveva assassinato una donna inerme. [Archivio storico dello stato maggiore dell’esercito. Roma; G. 11, fs. 42 1863; Giuseppe De Ferrari a Ubaldino Peruzzi, Telegramma Fobbia 14 ottobre 1863; “Banda Caruso oggi trucidava donna inoffensiva masseria Reggente presso Lucera”.]
Questo capobrigante aveva fra l’altro l’abitudine di sperimentare la qualità della polvere da sparo che gli era data da manutengoli sparando addosso ai prima contadini in cui si imbatteva. Ad esempio, il 6 ottobre 1862 si trovava nella località di San Giorgio la Montagna (oggigiorno San Giorgio del Sannio), quando, avendo ricevuto polvere da sparo, ne verificò la qualità fucilando nove contadini. Il suo operato può essere paragonato sotto tale aspetto a quello del quasi omonimo capobrigante Giuseppe Caruso, altro alleato della banda di Crocco, che assassinava spesso contadini nelle sue scorribande per la seguente ragione: “Perché ero certo che la truppa, trovando un morto, si fermava, ed io intanto avvantaggiava su d'essa mezzora di cammino”.
Caruso massacrava indistintamente persone di ogni età, inclusi bambini, come avvenne con l’eccidio della famiglia di Berardino Polzella, di sua moglie Marta Zeoli e dei figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi (di nove anni), Domenico (di sette anni), Michele (di quattro anni), avvenuto perché questi contadini non potevano rifornire la comitiva brigantesca di cibo.
Michele Caruso in diverse circostanze assassinò anche propri subalterni. Era sufficiente fare ritardare gli spostamenti della banda per venire ucciso e lasciato insepolto. Il brigante Agostino Penta, ammalatosi e febbricitante, venne ucciso da Caruso il 25 novembre 1863 sulla montagna di San Giorgio la Molara. Nel 1862, mentre si spostava per portare alcuni suoi uomini feriti nel bosco di S. Croce di Morcone ed in due grotte del Matese provvide ad eliminare personalmente coloro che non poteva trasferire: beninteso, la praticare d’uccidere i complici rimasti feriti in modo grave era comune a tutte le bande brigantesche. Un altro brigante, Giuseppe Pellegrino, fu ucciso con una coltellata da Michele Caruso perché, a digiuno da tempo e caduto in preda di violenti crampi allo stomaco, rimpiangeva d’essersi dato al brigantaggio.

III] Gli assassini di donne incinte e gli stupri/
Caruso si diede anche ad uccidere donne incinte, in questo non diverso da un altro capobanda, il calabrese Catalano, che bruciò viva una femmina gravida. L’aspetto patologico della vicenda è che Caruso assassinava donne incinte proprio perché erano incinte: “quante ne ha rapite ed uccise solo perché stavano per divenire madri!”, scrive Luisa Sangiuolo nel saggio breve “La comitiva del colonnello Caruso” (comparso in "Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880" De Martino, Benevento, 1975). L’incapacità di rapportarsi con l’altro sesso è una caratteristica frequente nei maniaci omicidi, siano essi uomini o donne, cosicché sovente questi pazzi criminali si dedicano ad uccidere persone dell’altro sesso.
Oltre ad uccidere uomini, donne ed animali per puro sadismo, questo brigante era anche un maniaco sessuale, colpevole di moltissimi stupri. Anna Belmonte, contadina di bell’aspetto, il 19 settembre 1862 nella masseria di suo padre subì una rapina da parte di tre briganti della banda Caruso, che saccheggiarono l’abitazione, prima d’andarsene. Costei, fortemente spaventata, andò a rifugiarsi nell’abitazione d’un vicino di casa, tale Saverio Carbone, nella quale però si trovava Caruso, che dopo averla picchiata la violentò davanti alla stessa moglie di Carbone. Dopo lo stupro di Anna Belmonte, Caruso se ne andò e s’imbatté poco più tardi, in vicinanza della masseria S. Auditorio, in una ragazza adolescente. Il capobrigante ordinò a suoi tre briganti di violentarla, il che avvenne davanti alla banda e sodomizzando la giovane. Si noti il particolare che Caruso in questa circostanza non violentò personalmente questa donna, avendone appena stuprata un’altra, ma ordinò ai suoi uomini di farlo: egli non fu mosso quindi dalla volontà di cercare soddisfazione sessuale, ma dal gusto di fare del male. Beninteso, questi sono soltanto alcuni dei casi di stupro compiuti da Caruso o dalla sua banda: ad esempio, nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, una ragazza adolescente fu violentata sino alla morte da quasi tutti i componenti della banda, come attestò in seguito il medico legale.

IV] Le uccisioni d’animali per puro sadismo/
Lo studioso Abele De Blasio, che fece in tempo ancora a raccogliere persino testimonianze orale dirette su questo personaggio, riferisce nel suo volume "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio" [Stab. Tipografico, Napoli, 1910] che il futuro capobrigante quando era ancora un bambino si divertiva a strangolare gli uccellini che suo padre gli dava in regalo. Una volta cresciuto e diventato brigante, continuò a praticare questa sua abitudine di torturare ed uccidere gli animali. Scrive il De Blasio: “Era egli, che pel solo desiderio di vedere soffrire e morire fucilava e bruciava gli animali.” Il sadismo verso gli animali è uno dei tratti distintivi dei maniaci omicidi, che solitamente incominciano da bambini a dare manifestazione delle proprie tendenze in siffatta maniera, per poi passare agli esseri umani.
Come già faceva nell’infanzia, Caruso nella sua attività brigantesca amava uccidere gli animali. Talora questo avveniva per rappresaglia verso chi non si piegava alle sue estorsioni, secondo una pratica che era comunissima nelle bande brigantesche, solite bruciare le abitazioni, i raccolti od uccidere gli animali di chi non accettava di versargli un “pizzo” e soddisfare le loro richieste. Sovente però Michele Caruso massacrava animali senza ragione apparente, esattamente come avveniva con gli esseri umani. Inoltre, l’esecutore materiale delle stragi d’armenti era abitualmente lui, come se provasse diletto a farlo. [ad esempio, il 22 dicembre 1862 presso la masseria De Iulio la banda Caruso aveva ucciso sei buoi. Archivio di stato di Torino. Ministero della guerra. Segretariato Generale. Divisione Gabinetto del Ministro “Affari generali” 1862-1868 brigantaggio, Rapporto di Gustavo Mazé de la Roche, Foggia 6 gennaio 1863].

V] Sevizie e crudeltà, con un caso di possibile cannibalismo/
Sempre nell’ottobre del 1863 questo capobrigante si recò con la sua amante Filomena Ciccaglione (una donna che era stata da lui rapita dopo che il delinquente aveva assassinato il padre) nell’abitazione di un suo “compare” in Puglia. Il cosiddetto “comparaggio” era all’epoca in Italia meridionale un legame molto forte e sentito. Il “compare” accolse amichevolmente Caruso, lo ospitò nella sua abitazione e gli offrì un pranzo. Terminato di mangiare, Michele Caruso, senza alcun motivo apparente, assassinò il “compare” e massacrò anche tutta la sua famiglia. Terminata la strage, il brigante fece letteralmente a pezzi il corpo del “compare” e lo buttò dentro ad una caldaia d’acqua bollente, così lessandolo. Questo comportamento pare alludere a pratiche d’antropofagia, che non erano per nulla ignote a molti briganti, letteralmente cannibali.
Non pago di uccidere, il capobrigante in questione talora torturava, sfregiava o mutilava le vittime: il caso del “compare” fatto a brani è forse un unico nella carriera di questo criminale, ma non mancano i casi di uomini con il viso lacerato con un pugnale od un rasoio, od a cui erano state mozzate le orecchie od una mano.

VI] La “filosofia di vita” di Michele Caruso: l’odio ed il nichilismo/
Durante il processo, questo Caruso, analfabeta, dichiarò ad uno dei giudici quale fosse la sua filosofia di vita: “Ih! Signurì, se avesse saputo legge e scrive, avrìa distrutto il genere umano”. Questa sua celebre affermazione, esaminata fra gli altri anche da Franco Molfese come una delle espressioni più tipiche della mentalità brigantesca, s’intona perfettamente con le azioni da egli compiute, che apparivano ispirate sovente ad un puro e semplice gusto d’uccidere e distruggere per il diletto di farlo, su di uno sfondo d’odio per il genere umano nella sua totalità.

Il brigante Mammone. Un cannibale

Il brigante Mammone, nominato “generale” dell’esercito “sanfedista” da Sua Eminenza il cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria, elogiato personalmente da Sua Altezza Reale Ferdinando di Borbone (meglio noto come “il re lazzarone”), era notoriamente un cannibale. Si può riportare al riguardo una fonte, fra le molte disponibili: ”Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui difficilmente si trova l’eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici;…Non si parla de’ saccheggi, delle violenze, degl’incendi;…non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltà inventati… Il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva scannare. Chi scrive (Cuoco, ndr) lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con avidità quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante sangue; beveva in un cranio…”. (Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”, Bur 1999, cpt XLIV, pag. 265, nota 4). Il brigante Mammone si era dato alla macchia dopo aver strozzato con le proprie mani un bambino che lo aveva dileggiato per il suo aspetto fisico deforme. Ingrossatasi la sua banda nelle condizioni di caos createsi dopo il tracollo del reame borbonico, egli aveva instaurato un proprio regime del terrore nei paesi in cui imperversava, facendo fucilare in due mesi circa 350 persone. Questo cannibale, a cui il re Ferdinando di Borbone scriveva chiamandolo suo “generale” ed “amico”, giunse al punto da celebrare una parodia satanica della messa, con tanto di sacrificio umano ed antropofagia. Fatto prigioniero un repubblicano, Mammone si recò in una chiesa, forzò un armadio contenente gli arredi liturgici e sacerdotali, quali il calice eucaristico, la stola, il piviale, e dopo essersi rivestito dei paramenti inscenò una sorta di celebrazione eucaristica, contornato dai suoi banditi. Al momento in cui sarebbe dovuta avvenire la consacrazione delle specie eucaristiche, quando durante una messa si pone il vino nel calice liturgico, Mammone sgozzò il prigioniero, facendo colare il sangue dentro la coppa, per poi berlo (Rosario Villari, “Giacobini e Sanfedisti: saggio critico storico di Napoli al 1799”). Questo medesimo personaggio ebbe fra le sue vittime anche ecclesiastici, come l’arciprete di Gallinaro, e giunse ad ordinare ad un suo subalterno d’uccidere l’abate di Montecassino. Il presunto difensore del cristianesimo contro i rivoluzionari, presentati dalla propaganda borbonica come “empi”, era quindi non solo un assassino, ma anche un antropofago, un sacrilego e forse persino un satanista vero e proprio.

I BRIGANTI? CRIMINALI COMUNI

È ampiamente noto e provato (cfr. gli studi di Antonio Lucarelli, Basilide Del Zio, Saint Jorioz, Franco Molfese, U. Caldora ecc.) che in schiacciante maggioranza i briganti ed i loro capi nel secolo XIX altro non erano che criminali comuni, i quali si servivano strumentalmente della causa sedicente legittimista come modo per ottenere armi, denaro, appoggi di vario genere, ma che erano interessati soltanto al proprio interesse personale. Quasi tutti i capi del brigantaggio degli anni 1860-1870 erano delinquenti e pregiudicati, con condanne riportate già in epoca borbonica. Il comportamento dei briganti nei confronti della popolazione civile fu quindi segnato da gravi violenze di natura criminale: assassini, sequestri di persona, estorsioni, stupri, furti e rapine ecc.
Delinquenti professionali come Carmine Crocco e Ninco Nanco erano i degni eredi dei moltissimi capobriganti che erano stati attivi nel corso dei secoli nel Mezzogiorno d’Italia anche, naturalmente, durante l’epoca borbonica.
Già solo restando all’epoca di Ferdinando I si trovano, fra i principali briganti, il cannibale Mammone, il famigerato Frà Diavolo, Fortunato Cantalupo detto “Terrore del Gargano”, Matteo Saracino detto “Il carnefice di Campobasso”, i fratelli Giovanni e Carmine Caruso, soprannominati “I mangia gatti”, Basso Romeo detto “re della campagna”, Giovanni Tolone, detto “il ritirato di Girifalco” o “spavento della Calabria”, Taccone, che giunse a definirsi re della Basilicata, Gaetano Vardarelli, che pretese ed ottenne di trattare direttamente col sovrano borbonico, il sacerdote Ciro Annicchiarico, Panzanera, Francatrippa, Marciano Gallo, Nicola Masi, Vito Rizzieri, Giuseppe de Furia, Pennacchio, Quagliarella, Occhialone, Battaglini, Scattone, Parafante, Bizzarro, Benincaso, Santoro, Scarola, De Leo, Nicola del Gobbo, Damiano Macchia, Donato Castelluccio, Natale Cellitti ecc. L’elenco è del tutto parziale ed incompleto nell’enumerare coloro che un generale borbonico, Nunziante, definiva “mostri invecchiati nel delitto”.
Sotto Francesco II, ancora pochi mesi prima della proclamazione dell’Unità d’Italia e con il reame in pieno disfacimento, il governo borbonico emise norme arcigne per distruggere le bande brigantesche, conferendo alle autorità militari poteri speciali.
L’entità dei crimini compiuti ad opera di questi delinquenti rimane ad oggi ancora ignota nelle sue precise dimensioni quantitative. Giusto per dare un’idea delle sue possibili proporzioni si può ricordare la stima che uno studio del brigantaggio, Adolfo Perrone (“Il brigantaggio e l’Unità d’Italia” Milano-Varese 1963, p. 266) riporta di circa 5 o 6 mila civili assassinati dai briganti. Si tratta d’un totale che sostanzialmente equivale a quello proposto da Franco Molfese, senz’altro il massimo studioso del brigantaggio postunitario, per il totale di briganti abbattuti o giustiziati dall’esercito e dalla guardia nazionale nel corso della repressione del fenomeno dal 1861 al 1865. La somma di civili assassinati suggerita dal Perrone anche se fosse esatta non terrebbe conto comunque dei ferimenti, dei rapimenti, delle violenze carnali, degli incendi e di tutti gli altri reati compiuti da questi criminali, per non parlare poi dei militari uccisi dai briganti stessi. La cifra proposta dal Perrone potrebbe essere comunque di molto inferiore al vero. Ad esempio, un altro studioso del brigantaggio, Basilide Del Zio (“Melfi e le agitazioni nel melfese. Il brigantaggio”, Melfi 1905), indica con molta precisione che, nel solo territorio di Melfi e nel solo 1863 (quindi in un luogo ed un periodo di tempo molto limitati), avvennero 175 assassini, 130 ferimenti e mutilazioni, 81 stupri, 800 fra furti e rapine, 200 incendi dolosi, 350 ricatti ad opera delle bande.
Un esame esaustivo dei crimini perpetrati dai briganti richiederebbe un lavoro di molti anni compiuto da un’intera squadra di studiosi, poiché bisognerebbe esaminare una documentazione sterminata e per di più sparpagliata in una quantità d’archivi differenti e fonti d’altra natura ancora.
In attesa che un tale meritevole studio sia realizzato, è comunque agevole offrire una rapida sintesi dell’operato delinquenziale di singoli briganti o bande brigantesche, in modo da fornirne un campione ridotto, che, sebbene non possa sostituire un’analisi statistica approfondita, pure può avere carattere esemplificativo.
Giusto per indicare alcuni casi, è agevole ricordare i cannibali Gaetano Mammone, Ninco Nanco e Cipriano la Gala, il maniaco omicida Michele Caruso, lo stupratore seriale Carmine Crocco, l’infanticida Giuseppe Mozzato uccisore del proprio stesso figlio, il camorrista Pilone …

BORJES ED I 400 LADRONI

Lo spagnolo José Borjès è presentato dagli apologeti del defunto regime borbonico come un esempio d’eroe idealista. Sottoposto ad un’analisi storica imparziale ed oggettiva, egli appare sotto altro aspetto.
Questi fu un ufficiale d’idee assolutistiche, in esilio dalla Spagna per aver preso parte ad una guerra civile colà avvenuta, reclutato da emissari di Francesco II di Borbone per andare a capeggiare la banda di briganti di Carmine Crocco.
Divenuto comandante di questa masnada, il Borjes si rese corresponsabile delle molte e gravi violenze compiute da questi briganti a discapito dell’inerme popolazione civile. Simili atti sono testimoniati dallo stesso Borjes nel suo diario personale, risultando quindi incontestabili. Durante il breve periodo in cui lo spagnolo fu a capo dei banditi di Crocco, guidandoli in direzione di Potenza, ogni paese caduto nelle loro mani fu teatro di gravi violenze.
A Trivigno, scrive lo spagnolo, «il disordine più completo regna fra i nostri, cominciando dai capi. Furti, eccidi e altri fatti biasimevoli furono la conseguenza di questo assalto […] Crocco, Langlois e Serravalle hanno commesso a Trevigno le più grandi violenze. L’aristocrazia del luogo erasi nascosta in casa del sindaco, e i sopraddetti individui, che hanno ivi preso alloggio, l’hanno ignobilmente sottoposta a riscatto. Più: percorrevano la città , minacciavano di bruciare le case de’ privati, se non davano loro danaro.» Secondo quanto riportato dallo storico Basilide Del Zio, a Trivigno in quell'occasione furono massacrate sei persone: Domenico Antonio Sassano, Michele Petrone, Teresa Destefano, Giambattista Guarini, Cristina Brindisi e Rocco Luigi Volino. Crocco riconobbe nelle sue memorie che coloro che si rifiutano di consegnare i propri beni venivano trucidati.
A Calciano, scrive ancora Borjes, «è stato saccheggiato tutto, senza distinzione a realisti o a liberali in un modo orribile: è stata anche assassinata una donna e, a quanto mi dicono, tre o quattro contadini.»
A Garaguso, nonostante il parroco assieme ad altri paesani fosse uscito incontro ai briganti tenendo il crocifisso in mano e chiedendo pietà, avvenne ciò che Borjes definisce ambiguamente «scena» e di cui si rifiuta di raccontare alcunché, tranne che si trattava di «disordine». Insomma, anche questa cittadina era stata saccheggiata.
A Salandra, avviene un altro saccheggio («La città è stata saccheggiata»), non senza un assassinio da parte di Crocco, di cui fu vittima un tale Spazziano.
A Craco, nonostante la popolazione intera fosse venuta incontro ai banditi, nella speranza d’evitare le loro violenze, «avvennero non pochi disordini»
Ad Aliano, «dove la popolazione ci riceve col prete e colla croce alla testa, alle grida di Viva Francesco II; ciò non impedisce che il maggior disordine non regni durante la notte. Sarebbe cosa da recar sorpresa, se il capo della banda e i suoi satelliti non fossero i primi ladri che io abbia mai conosciuto.»
Ad Astagnano, si ripete la situazione d’altri paesi. I sacerdoti e la popolazione vanno incontro ai briganti con croci e bandiere bianche in mano, in segno di pace e di resa, il che non frena i criminali, che, a dir del Borjes, «hanno cominciato a farne delle loro solite».
A Grassano, il saccheggio riprende: «i nostri capi vanno a rubare dove più lor piace.»
A Pietragalla, lo spagnolo rinuncia persino a cercare di frenare i suoi uomini e la città è anch’essa messa a sacco.
A Balbano, Borjes è testimone di fatti tali che si rifiuta persino di menzionarli, limitandosi a definirli quali assolutamente orribili: «I disordini più inauditi avvennero in questa città; non voglio darne i particolari, tanti sono orribili sotto ogni aspetto.»
Per farla breve, ogniqualvolta l’orda capitanata da questo mercenario spagnolo entrò in una città, la sottopose a saccheggio e devastazione, non senza stragi di cittadini inermi, anche quando la popolazione si era arresa senza combattere.
Borjes ammise che si stava recando da Francesco II a Roma per dirgli che questi non aveva altro che “miserabili e scellerati” dalla sua parte, che Crocco era un criminale della peggior specie e Langlois un bruto: «J’allais dire au roi Francois II qu’il n’y a que des miserables et des scelerats pour la defendre que Crocco est un sacripant et Langlois un brute»
Bisogna aggiungere che mentre Borjes cercava di scaricare le responsabilità dei massacri e dei saccheggi su Crocco, quest’ultimo fece lo stesso con lo spagnolo: si trattò d’un classico caso di “scarica barile”, quando in realtà erano entrambi, necessariamente, corresponsabili, essendo i capi della banda di briganti che compiva simili gesti.

TESTE TAGLIATE AI BRIGANTI (A MUCCHI) DURANTE IL CALIFFATO BORBONICO

Sotto l’infelice regno borbonico, soprannominato in Europa “il regno senza strade”, esisteva una sola via percorribile da carri e carrozze che collegasse la capitale alla Puglia e si trattava d’una strada d’origine romana.
La principale arteria di comunicazione del regno delle Due Sicilie era tutt’altro che sicura dai briganti, poiché i suoi viaggiatori erano soggetti alle minacce di bande e comitive in pratica per tutto il suo percorso. Il tratto di maggior pericolo era però quello del vallo di Bovino, in Capitanata, nelle cui vicinanze sorgevano estesi e folti boschi, in cui si annidavano folte orde di briganti.
Come informava una relazione trasmessa al direttore generale di polizia (borbonica) nel 1818, le cause del fenomeno erano molteplici: la connivenza generale fra amministratori locali, giudici e briganti; l’omertà dei pastori e contadini del posto; l’estrema miseria di buona parte della popolazione del territorio, in cui il brigantaggio era una vera professione che si trasmetteva di padre in figlio ed a cui si dedicavano migliaia di persone, che non avevano altra fonte di sostentamento che le rapine, i saccheggi, le estorsioni, i sequestri di persona.
In questa situazione, lo stato borbonico fece ricorso a misure straordinarie contro il brigantaggio, che prevedevano:
-l’imposizione di taglie sulle teste dei banditi, che potevano essere legittimamente uccisi da chiunque, in cambio del premio in denaro;
-l’impunità totale per i criminali che ne uccidessero altri (vi furono così molti casi di briganti che uccisero i loro capi o compagni);
-la costituzione di reparti di “bounty killers” costituiti da briganti assoldati per cacciare ed uccidere altri briganti;
la pena di morte imposta anche per tutti i “manutengoli”, ossia per coloro che, in qualunque modo, aiutassero, favorissero o fossero complici dei briganti: ricettatori, informatori ecc.
Queste ed altre misure non riuscirono però a sradicare il fenomeno, per cui le autorità borboniche cercarono anche di terrorizzare i briganti. Giuseppe Ceva Grimaldi, marchese di Pietracatella e nominato nel 1817 intendente di polizia e pubblica sicurezza in Terra d’Otranto, riferiva quanto segue. Egli aveva attraversato anche il vallo di Bovino ed aveva visto sul ponte un gran numero di teste mozzate di briganti, che erano state tagliate e poi collocate dentro a gabbie di ferro ivi esposte quale ammonimento contro i banditi ed i loro fiancheggiatori, pastori e contadini del luogo.
In passato il potere borbonico aveva fatto ricorso anche alla pratica dello “squarto” o “squartamento” dei briganti, che venivano letteralmente tagliati a pezzi, prima dell’esposizione delle parti smembrate del loro corpo come avvertimenti ai loro complici.
Queste misure repressive borboniche non impedirono però che il brigantaggio continuasse ad imperversare in quasi tutto il regno. Uno scrittore borbonico, Cesare Malpica, raccontando d’un suo viaggio nel reame riferiva di come a causa dei briganti fosse sorta in Puglia la pratica, per chi doveva andare a Napoli, di fare testamento prima della partenza!

«IL BOIA». STRAGI, TORTURE E MUTILAZIONI DEL BRIGANTE GIUSEPPE ROTELLA

Uno dei moltissimi, innumerevoli capibanda che infestarono il Mezzogiorno ad inizio del XIX secolo fu Giuseppe Rotella, che fu soprannominato “Il boia”. Questo brigante, nato a Tiriolo sulla Sila piccola, fu attivo per cinque anni, dal 1806 al 1810, nel territorio di Catanzaro. L’epicentro della sua attività criminosa era sulla via che da Nicastro conduce a Catanzaro e furono specialmente i paesi di Feroleto e Caraffa ad essere travagliati dalle sue violenze.
Rotella con la sua banda praticava estorsioni ai danni degli abitanti, furti di bestiame, sequestri di persona ed assassini su commissione ovvero omicidi a pagamento. Quello per cui egli è rimasto famoso è però il suo sadismo, che lo portava ad incrudelire a casaccio contro gli sfortunati in cui si imbatteva, per il puro gusto d’infliggere morte e dolore.
Rotella aveva due sevizie preferite. La prima consisteva nel far sbranare vive le sue vittime dai mastini (cani corsi, discendenti dai molossi degli antichi romani) che portava con sé. La seconda, ancora più praticata, era l’uso di mutilare i contadini ed i viaggiatori: “il boia” tagliava loro le orecchie oppure anche il naso e le labbra. In alcuni casi egli dopo aver straziato in questo modo le vittime le faceva legare nude all’aperto, cospargendole di miele affinché venissero divorate vive dagli insetti. La città di Feroleto, su cui egli imperversò con particolare accanimento, finì con l’avere la maggioranza degli abitanti mutilati con la perdita delle orecchie o del naso.
Questo brigante fu anche responsabile d’un massacro di grosse dimensioni. Il fatto avvenne nel 1809, quando fece irruzione nel paese di Caraffa, un centro arbereshe nelle vicinanze di Catanzaro. In quella circostanza avvenne un eccidio di 42 persone assassinate da Rotella e dalla sua banda brigantesca. Rotella inoltre rapì una fanciulla di quattordici anni per costringerla a diventare la sua amante.
Il capobanda Giuseppe Rotella, non a caso soprannominato “il boia”, divenne così inviso alla popolazione calabrese che gli abitanti di Cosenza proposero come sua punizione che venisse torturato a morte con le stesse modalità che egli aveva adoperato sugli uomini sequestrati.
Le torture e mutilazioni che “il boia” compiva non erano però eccezionali fra i briganti dell’epoca, presso i quali anzi erano decisamente comuni. Per limitarsi al solo distretto di Catanzaro e sempre negli anni in cui questo Rotella operava, moltissimi altri casi analoghi avvennero ad opera di altri capibanda.
Ad esempio, un abitante di nome Francesco Abruzzo aveva avuto il coraggio di violare l’omertà su di una banda di briganti. Costoro lo sequestrarono, lo squartarono ed infine ne appesero i resti alla porta dell’ufficiale di polizia della zona.

lunedì 11 maggio 2015

GAETANO SALVEMINI, IL RISORGIMENTO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

Gaetano Salvemini, storico e politico, fu per tutta la vita un convinto sostenitore del Risorgimento e dell’Unità. Fu a Rionero in Vulture, nella casa di Giustino Fortunato (meridionalista e meridionale, amico di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini), che nell'ottobre del 1911 venne scelto il titolo "L'Unità" per il nuovo settimanale che Salvemini si apprestava a fondare e dirigere. Fu proprio Fortunato a suggerirlo, con ciò intendendo che questa rivista divenisse uno strumento per un compimento ulteriore dell’Unità nazionale ossia un suo rafforzamento. Il Salvemini, come anche il Fortunato, intendeva infatti l’Unità d’Italia non come un dato statico appartenente al passato, bensì quale una realtà dinamica ed in corso di realizzazione. Il Volpe, un grande storico d’idee politiche lontanissime da quelle di Salvemini, aveva espresso questo concetto nel suo saggio “L’Italia in cammino”, che delineava un processo d’unificazione iniziato ben prima del secolo XIX e che continuava anche dopo il 1861.
Il Salvemini, come tutti gli altri principali storici del periodo risorgimentale, come i due grandi Gioacchino Volpe e Rosario Romeo, non fu una sorta di vuoto apologeta del processo d’unificazione e seppe mostrarne assieme gli aspetti positivi e negativi, le realizzazioni e quello che restava ancora da compiere. Il loro quadro espositivo ed interpretativo risulta quindi inevitabilmente articolato e molteplice, essendo la realtà storica essa stessa tale, sempre e comunque. Tuttavia, al momento del “redde rationem”, Salvemini diede un giudizio favorevole al Risorgimento come storico, mentre come politico sempre sostenne l’unità italiana ed il patriottismo.
Ciò premesso, è possibile ora valutare le cause, secondo Salvemini, della “questione meridionale”. Egli ne indicava tre: 1) uno stato eccessivamente accentrato; 2) la concorrenza dell’economia settentrionale; 3) la struttura sociale feudale del Mezzogiorno.
Egli supponeva quindi tre motivi, uno amministrativo, l’altro economico, il terzo sociale. Esaminiamoli ad uno ad uno.

1) Per ciò che riguarda il primo punto, il Salvemini suggeriva una riforma in senso federale dello stato italiano, poiché egli riteneva che questo avrebbe favorito lo sviluppo di tutte le regioni, del sud, del centro, del nord.
Tuttavia, esiste un’importante corrente storiografica che afferma la positività per il Mezzogiorno dello stato nazionale accentrato. Ad esempio, Emanuele Felice ha spiegato il miglioramento degli indicatori sociali del Meridione a partire dal 1861 in termini di dipendenza da fattori endogeni, ovvero al miglioramento della condizione degli indicatori sociali nazionali: «La categoria interpretativa della “modernizzazione passiva” proposta da Luciano Cafagna appare la più consona per dare conto degli avanzamenti del Mezzogiorno nel campo sociale, forse più di quanto essa non lo sia relativamente al reddito. Il Sud, come già detto, si sarebbe semplicemente avvantaggiato dei miglioramenti del quadro generale, nazionale ed anche internazionale (per quel che riguarda, ad esempio, l’estensione dell’istruzione obbligatoria e di base, oppure la diffusione delle pratiche e delle infrastrutture igieniche e sanitarie); ne avrebbe beneficiato “passivamente”, ovvero senza particolare reattività da parte di autonomi soggetti locali, ed anzi con una certa lentezza, dovuta a condizioni endogene di ordine istituzionale e culturale.»
Lo stesso Salvemini, che pure era un federalista, riconobbe che lo stato accentrato era stato una necessità per l’Italia: «quella monarchia burocratica, rappresentativa, censuaria, era, un secolo fa, il solo ordinamento politico ed amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale».
Si deve inoltre aggiungere che la struttura statale accentrata, sul modello francese, assunta dallo stato italiano al momento dell’Unità era stata adottata anche con il concorso determinante della classe politica ed intellettuale del Meridione. Diversi pensatori settentrionali, come Balbo, Gioberti, Cattaneo, erano unitari in senso federalistico, mentre invece nel Mezzogiorno esisteva una netta prevalenza a favore d’uno stato accentrato sul modello murattiano, ossia napoleonico. Non è un caso che il grande giurista Pasquale Stanislao Mancini, riformatore del diritto internazionale con la sua concezione di stato nazionale, fosse un meridionale (antiborbonico ed emigrato a Torino, dove divenne prestigioso docente universitario).

2) La seconda ipotesi di Salvemini fra le cause della “questione meridionale” è quella definibile del meridionalismo classico, propria anche di Fortunato e Nitti, rivisitata da Gramsci e ripresa dagli storici marxisti, infine definitivamente confutata da Rosario Romeo. Essa riconosce che il divario preesisteva all'Unità, ma sostiene che si sia accentuato dopo di essa, o per le politiche governative sbagliate (quelle della Sinistra storica però, costituita in prevalenza da meridionali), o per la legge del "dualismo economico", ovvero che le aree già più sviluppate sono riuscite ad attrarre in misura maggiore capitali, personale ecc. dal resto d'Italia.
Tuttavia, l’idea del Salvemini di un Mezzogiorno svantaggiato sul piano fiscale e degli investimenti statali da parte dello stato nazionale è stata confutata dallo studioso di statistica ed economista Corrado Gini. Questo studioso, conosciuto internazionalmente per il famoso “indice di Gini” che da lui prende il nome, nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” smontò completamente le teoria del Salvemini e del Nitti su di un Meridione sfavorito nelle politiche economiche dello stato. Il Gini poté respingere le loro ipotesi sulla base di dati oggettivi di ordine matematico, che calcolavano quando il sud versava allo stato centrale e quanto riceveva indietro. L’opera del Gini segnò una pietra miliare nel campo degli studi e dei dibattiti su questo argomento specifico: neppure il Nitti ed il Salvemini lo contraddissero o pretesero di smentirlo.
Anche l’ipotesi del dualismo economico quale puramente dannoso agli interessi del Meridione ha ricevuto poi confutazione da parte di uno dei più grandi, o forse il più grande, degli storici del Risorgimento, ossia il siciliano Rosario Romeo. Questi, che ha prodotto lavori finora insuperati per mole documentaria ed analisi sistematica di fonti, ha potuto provare come in Italia il dualismo economico abbia avuto valenze positive. È vero che il nord ha saputo attrarre a sé personale, capitali ecc. dal sud grazie ad uno sviluppo economico relativamente maggiore, ma è altrettanto vero che in questo modo ha funto da locomotiva per lo stesso sviluppo meridionale.

3) rimane infine la terza ipotesi di Salvemini, che non è sua originale poiché è stata formulata in modo indipendente e con una molteplicità di varianti da moltissimi altri studiosi. Essa individuava nella struttura socioeconomica meridionale, dominata dai latifondisti, con una classe borghese debole e subalterna ed una gran massa di contadini poveri, la causa principale dei mali del sud.
Da questo derivava, secondo il Salvemini, immobilismo economico (per l’assenza di una classe imprenditoriale vera e propria, al posto di latifondisti assenteisti), corruzione ed illegalità (si perpetuava al di fuori della legge un insieme di rapporti di tipo feudale), mancato coinvolgimento nella cosa pubblica della netta maggioranza della popolazione ecc.
Seppure con una grande differenza di prospettive ed analisi, questo “punctum dolens” è stato rilevato praticamente da tutti i maggiori studiosi della questione meridionale: il Fortunato, il Nitti, il Villari, il Franchetti, il Sonnino, il Banfield ed il Putnam, il Cafagna ecc.
Anche se il giudizio di Salvemini sul latifondo meridionale presenta diverse imperfezioni, pure esso coglie certamente nel segno nell’essenziale. Questi faceva notare che l’Unità aveva segnato un mutamento nelle norme legislative ed amministrative, mentre invece le strutture sociali del Mezzogiorno erano rimaste quasi immutate nel loro impianto plurisecolare: proprio per questo egli parlava della necessità di realizzare pienamente l’Unità.
Il predominio nel Mezzogiorno di strutture feudali particolarmente forti e radicate per tutto il periodo compreso fra il secolo XIV ed il XIX è indiscutibile ed ha avuto un ruolo decisivo in fenomeni come l’accentuata polarizzazione dei redditi (con un minuscolo ceto depositario della maggioranza dei beni, quindi con immense schiere di nullatenenti o poverissimi), la debolezza dello stato (dovuto al potere locale di oligarchi), l’insorgere di fenomeni di brigantaggio e delinquenza organizzata (ambedue largamente collusi, se non manovrati, dai latifondisti).

In tutta la sua gigantesca produzione saggistica, il Salvemini non espresse mai alcun rimpianto del reame borbonico, anzi espresse giudizi perentori su di esso, con la durezza descrittiva che lo contraddistingueva. Questo meridionalista così presentava, ad esempio, le condizioni del Mezzogiorno borbonico per ciò che riguardava una infrastruttura apparentemente “minore” e molto trascurata dagli studi storici, quali i cimiteri:
«Nella città di Napoli […] il cimitero destinato alle classi povere consisteva in tanti carnai quanti erano i giorni dell’anno. I cadaveri, in media 200 al giorno, erano portati al cimitero in carri municipali, come spazzatura, e buttati alla rinfusa nel carnaio della giornata, che era chiuso per essere riaperto e riempito l’anno dopo. Nella provincia di Potenza i cimiteri erano sconosciuti. I benestanti avevano le tombe di famiglie nelle chiese […] I poveri erano portati a seppellire e […] buttati giù a imputridire alla rinfusa nel carnaio comune […] Vi erano luoghi in cui i poveri erano buttati in voragini il cui fondo era sconosciuto, oppure erano abbandonati senz’altro fra le erbacce dei così detti cimiteri; i cani vi si raccoglievano per far festino»
(Cfr. Gaetano Salvemini, “Scritti sul Risorgimento”, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda. Feltrinelli editore, Milano 1961; compare nel tomo secondo di Opera omnia di Salvemini, “Scritti di storia moderna e contemporanea”; citazione a p. 469).
Questo meridionalista non fu un apologeta del reame borbonico (nonostante i tentativi fatti da alcuni sedicenti revisionisti d’attribuirgli un tale atteggiamento, appropriandosi di brandelli del loro pensiero e dimenticando tutto il resto).
Salvemini fu un convinto unitario: sostenitore delle idee di Mazzini (a cui dedicò lavori come “Il pensiero e l'azione di Giuseppe Mazzini” e “La formazione del pensiero mazziniano”), ammiratore di Garibaldi, irredentista e favorevole alla guerra contro l’impero asburgico. Il suo lavoro “Scritti sul Risorgimento” offre un quadro del processo unitario che è un insieme di luci e di ombre, com’è inevitabile in ogni fenomeno storico. Pure, il Salvemini sempre difese l’Unità con motivazioni assieme ideali e materiali.

domenica 10 maggio 2015

LA LUNGA DURATA DEL CONCETTO DI STATO NAZIONALE ITALIANO. DALL’ANTICHITA’ AL RISORGIMENTO

La festa del 17 marzo commemora la data in cui fu proclamato il regno d’Italia nel 1861 sotto Vittorio Emanuele II. Si sente talora affermare che questo sarebbe l’inizio dell’Italia stessa, poiché secondo alcuni tale nazione non sarebbe esistita affatto in precedenza, o quantomeno non sarebbe esistito uno stato italiano. Simili visioni, care in particolar modo ai secessionisti o comunque a coloro che contestano lo stato nazionale predicandone la dissoluzione e la scomparsa, non hanno in realtà fondamento storico alcuno.
È appena il caso di precisare che nazione e stato non sono sinonimi e che la patria o gruppo etnico continua ad esistere qualunque sia la forma politica in cui si trova. L’Italia ha un’esistenza più che due volte millenaria che si esprime sul piano della lingua, dell’onomastica, della toponomastica, della letteratura, dell’architettura, dell’urbanistica, della musica, delle strutture giuridiche, della coscienza collettiva ecc. Essa non nasce quindi nel 1861, essendo pienamente esistente quantomeno dal I secolo avanti Cristo.
Non è neppure vero che l’Italia non fosse mai stata unita prima del Risorgimento. Il 17 marzo del 1861 è il momento in cui il regno d’Italia viene ad essere ufficialmente e giuridicamente ri-costituito, non costituito, poiché esso era già esistito in precedenza e per lunghi secoli. Prima ancora del medievale regno d’Italia questa regione e la sua nazione italiana erano state ambedue unificate da Roma antica per un periodo plurisecolare.

L’Italia viene ad essere unificata sul piano giuridico già sotto l’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale così facendo non fa altro che riconoscere l’ormai raggiunta unità culturale ed etnica nella penisola. Questa unificazione legislativa ed amministrativa permane per tutti i secoli seguenti, anche dopo il 476 che alcuni pongono come fine dell’impero romano d’Occidente.
La famosissima deposizione di Romolo Augustolo non equivaleva per nulla, né formalmente, né nelle intenzioni d’Odoacre, alla fine dell’impero, bensì alla sua ricostituzione. Essa coincideva comunque con la costituzione di un “regnum Italiae”, il cui sovrano era Odoacre, corrispondente all’antico ager Romanus, ossia alla prefettura d’Italia ovvero alla diocesi italiana.
Il regnum Italiae continua ad esistere anche sotto i Goti. Il sovrano goto è assieme rex Gothorum (intendendo ciò alla maniera del diritto germanico, che non era territoriale) e rex Italiae (intendendo ciò secondo il diritto romano), ossia sovrano del popolo dei Goti ed assieme sovrano dell’Italia.
Questa distinzione ricompare anche sotto i Longobardi. Questi appartenevano alla famiglia detta dei Germani orientali ed erano, fra tutte le popolazioni germaniche, le meno assimilate alla civiltà romana al momento della loro invasione (oltre che le meno germaniche di tutte le popolazioni germaniche, poiché largamente imbevute di cultura turco-mongola e di sciamanesimo). L’irruzione dei Longobardi in Italia segnò una vera frattura nella storia della penisola, sia perché pose termine sino al XIX secolo alla sua unità politica (mantenutasi ininterrotta dal II secolo a.C.), sia perché sconvolse le strutture politiche, economiche, sociali, culturali ancora conservatesi profondamente tardo antiche. I Longobardi però erano numericamente assai pochi e con una cultura di molto inferiore a quella degli autoctoni, cosicché nel giro di poche generazioni andarono incontro ad un rapido processo di latinizzazione ed assieme di cattolicizzazione (praticamente sinonimi nell’Italia dell’epoca). I loro primi sovrani si definivano rex Langobardorum (intendendo ciò alla maniera germanica), ma si noti che i romanici in territorio longobardo, purché di condizione libera, s’amministravano secondo il diritto romano. Ben presto però, sopraggiunta una prima romanizzazione, Agilulfo (che non era nemmeno di stirpe longobarda, essendo un turingio: longobarda era sua moglie Teodolinda, che però si era convertita al cattolicesimo…) si proclamò “gratia Dei rex totius Italiae”. Era il 604 d.C., quindi erano passati meno di quarant’anni dall’invasione in Italia (avvenuta nel 568). La proclamazione avvenne introducendo anche pratiche di corte ispirate a quelle in uso nell’impero romano d’Oriente e su sollecitazione di consiglieri latini. Agilulfo rimaneva rex Langobardorum (alla maniera germanica), ma si proclamava anche rex Italiae (questa volta secondo il diritto romano). L’Italia infatti era sempre rimasta nel sistema giuridico romano regione a sé stante, distinta dalle altre dell’impero, sin dai tempi d’Augusto. Sebbene avesse perduto ogni privilegio nel corso del III secolo d.C., pure era sempre rimasta amministrativamente e giuridicamente separate dalle altre “prefetture” (Galliae, Hispaniae, Grecia ecc.). Proclamandosi rex Italiae, Agilulfo si rifaceva a questa tradizione storica e giuridica.
I longobardi, ormai pressoché completamente italianizzatisi e romanizzatisi, si proposero anzi quale obiettivo fondamentale della propria azione politica la riunificazione dell’Italia, ossia del regnum Italiae: il monarca “longobardo” ad un certo punto prese a definirsi “rex totius Italiae”, re di tutta l’Italia. Tre sovrani, Liutprando, Astolfo e Desiderio, tentarono questa impresa, fallendo soltanto per la capacità del vescovo di Roma di servirsi della propria autorità spirituale e religiosa per scagliargli contro invasioni straniere, ossia i Franchi.
Il concetto e l’istituto di regno d’Italia si ripresenta anche sotto il dominio franco. Carlo Magno, conquistata Pavia, si proclama Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum, ma è anche rex Italiae (781). Proprio con Carlo Magno si ha un passo giuridico fondamentale nella storia di questo “regno”, poiché il sovrano dei Franchi e dei Longobardi facendosi proclamare imperatore (romano), rivendica per sé il titolo di sovrano universale (non re di un dato popolo: la distinzione è basilare). Egli fa ciò anche perché rex Italiae, in quanto il sovrano dell’Italia, patria di Roma e culla dell’antico impero, ha diritto al titolo imperiale.
Il regnum Italiae conserva i suoi istituti politici, amministrativi e giuridici, anche sotto la dominazione carolingia, ma finisce coinvolto come tutti gli altri organismi politici dell’Occidente medievale nella crisi del IX secolo, con una progressiva frammentazione e disarticolazione delle sue strutture a beneficio di poteri locali.
È nell’Alto Medioevo che si ha comunque un importante tentativo politico di riunificare l’Italia, ad opera di Arduino d’Ivrea, che si proclamò rex Italiae nell’anno 1000, fu incoronato a Pavia nel 1002 e continuò con alterne vicende a perseguire il suo progetto sino al 1014, fallendo soltanto per l’opposizione della Chiesa, che si alleò con principi germanici.
Il titolo di rex Italiae ed il correlato regnum Italiae continuarono però ad esistere anche nei secoli successivi. L’impero romano per gli uomini del Medioevo, non era scomparso, ma continuava ad esistere, soltanto in forma mutata. Semplificando al massimo grado per ragioni di sintesi, l’imperium era ritenuto essere stato ordinato da Dio stesso per l’umanità intera ed avrebbe continuato ad esistere sino alla fine dei tempi. L’imperatore quindi non era sovrano soltanto d’alcuni territori, ma di tutta la terra. Di fatto però, era evidente che l’autorità dell’imperatore era riconosciuta solo in alcune regioni e, si badi bene, non perché imperatore, ma in quanto principe, duca ecc. di determinati territori. Il titolo imperiale però era collegato, sempre e necessariamente, a quello di rex Italiae, poiché l’Italia era il centro dell’impero con Roma. Non è un caso che un altro tentativo di ripristinare l’unità politica della nazione italiana avvenne con Federico II di Svevia, che a detta di Ernst Kantorowicz, suo massimo biografo, pensava a sé stesso come “romano” e che fu sia fra i patrocinatori della riscoperta dell’antico, sia fra i promotori dell’italiano letterario. Questo sovrano progettava l’“unio regni et imperi”, ossia l’unione del regnum Italiae in senso stretto, che le vicissitudini storiche avevano portato a comprendere soltanto la maggior parte dell’Italia centro-settentrionale, ed il più giovane regnum Siciliae, sorto solo nel secolo XI.
Seppure solo sul piano simbolico e formale, il regnum Italiae conservò la sua esistenza anche nell’evo moderno, tanto che la famosa Corona Ferrea venne usata dal VI secolo sino al XIX per l'incoronazione dei re d'Italia.
Tre punti debbono essere evidenziati: 1) il regnum Italiae od italicum si è costituito prendendo a base e modello l’anteriore ripartizione politica e giuridica romana; 2) esso è durato, fra alterne vicende, praticamente dalla caduta di Roma sino agli albori del Risorgimento; 3) anche se per lunghi secoli non ha avuto alcun connotato sostanziale sul piano amministrativo, pure ha sempre espresso con chiarezza l’idea dei contemporanei dell’esistenza dell’Italia, a cui corrispondeva il “regno”.
Bisogna ancora aggiungere che dopo Federico II di Svevia si ebbero almeno altri tre tentativi di ricostituire l’unità politica d’Italia, con Cola di Rienzo, Ladislao di Napoli e la repubblica di Venezia, i quali tutti si posero questo obiettivo.

In conclusione, è facile dimostrare che l’Italia è stata unificata anche sul piano giuridico e politico dal I secolo avanti Cristo sino al 568 dopo Cristo, a prescindere naturalmente dall’unità etnica e culturale che non mai venuta meno in più di 2000 anni. Inoltre anche nel periodo compreso fra il 568 ed il 1861 la consapevolezza d’una medesima appartenenza nazionale e l’idea di un organismo politico che riunificasse l’Italia intera non vennero mai meno. Vi furono infatti diversi tentativi in tale direzione: Liutprando, Astolfo, Desiderio, Arduino d’Ivrea, Federico II di Svevia, Cola di Rienzo, Ladislao di Napoli, la repubblica di Venezia furono tra coloro che cercarono di ricreare uno stato nazionale italiano.
Né il concetto di patria italiana, né quello di stato nazionale sono quindi creazioni storicamente recenti, come talora si sente dire. Non solo la nazione italiana esiste da 2000 anni e più, ma la concezione di uno stato italiano unitario è altrettanto antica ed ha continuato ad esistere come aspirazione ideale anche nell’intermezzo fra l’unificazione di Roma antica e quella del Risorgimento.

giovedì 7 maggio 2015

Il genocidio asburgico

Riportiamo una citazione testuale da una interessante ed approfondita discussione sul sito http://patriottismo.forumcommunity.net/?t=42882887, autore l'utente "Rinascimento":


"Il cosiddetto impero austriaco [...] si è reso responsabile nei confronti della nazione italiana di una gran quantità di persecuzioni, abusi e violenze, non solo durante gli anni del Risorgimento e dell'Unità.
È noto come esso abbia contribuito in modo decisivo a perpetuare a lungo lo stato di divisione dell’Italia, il possesso coloniale d’ampi suoi territori sotto dominio straniero, la condizione di sfruttamento economico, repressione culturale, oppressione politica e discriminazione etnica dei suoi sudditi italiani. È invece meno conosciuto come esso abbia progettato e portato a compimento dopo il 1866 un genocidio, nell'accezione di snazionalizzazione forzata, a danno degli Italiani residenti nei propri possedimenti.



Una valutazione obiettiva e veritiera della natura dell’impero asburgico, fondato sul principio dell’egemonia dell’elemento etnico austriaco, può essere introdotta ricordando la verbalizzazione della decisione imperiale espressa nel Consiglio dei ministri il 12 novembre 1866, tenutosi sotto le presidenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe, dopo la conclusione della III guerra d'indipendenza (detta da alcuni guerra austro-prussiana). Il verbale della riunione recita testualmente:
Sua maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno” [cfr. Luciano Monzali, "Italiani di Dalmazia", Firenze 2004, p. 69; Angelo Filipuzzi (a cura di), “La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri”, Padova 1966, pp. 396].
La citazione della decisione imperiale di Francesco Giuseppe di compiere una pulizia etnica contro gli Italiani in Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia, Dalmazia, si può reperire in Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi, Wien, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2, seduta del 12 novembre 1866, p. 297.
La citazione in tedesco compare in un paragrafo intitolato "Misure contro l’elemento italiano in alcuni territori della Corona", ossia "Maßregeln gegen das italienische Element in einigen Kronländern": “Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, daß auf die entschiedenste Art dem Einflusse des in einigen Kronländern noch vorhandenen italienischen Elementes entgegengetreten und durch geeignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluß der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Pflicht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen” Tale brano si chiude con il richiamo a tutti gli uffici centrali del dovere rigoroso di procedere a quanto ordinato, secondo la volontà dell'imperatore.
La decisione governativa, presa al più livello dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal suo consiglio, di procedere a germanizzare e slavizzare (ovvero a procedere a germanizzazione e slavizzazione) le regioni a popolamento italiano, Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia, “con energia e senza riguardo alcuna”, attesta in maniera inequivocabile la natura discriminatoria ed oppressiva dell’impero asburgico nei confronti della minoranza italiana: si ricordi comunque come questo sia solo un esempio fra i molti della politica anti-italiana dell’Austria.
Tale atto di governo, preso direttamente dall’imperatore stesso, esprimeva la chiara volontà di condurre ad un genocidio antitaliano (non nel senso di sterminio fisico, quanto di cancellazione dell'identità nazionale e culturale, che avrebbe portato appunto alla "morte di un popolo" tramite snazionalizzazione forzata e pulizia etnica), il quale fu poi effettivamente realizzato in Dalmazia (i censimenti austriaci segnalano in pochi la diminuzione del gruppo etnico italiano da quasi il 20% a poco più del 2%) ed intrapreso in Venezia Giulia e Trentino: soltanto la guerra e la vittoria italiana poterono impedire che anche in queste due ultime regione la presenza italiana fosse cancellata, come era avvenuto in quella dalmata, in cui si attuò una slavizzazione rapida ed intensa.
Si trattò pertanto di un genocidio socio-culturale od etnocidio, inteso come distruzione del senso d'identità e del patrimonio culturale d'un gruppo etnico.
(http://dizionari.hoepli.it/Dizionario_Ital...Query=etnocidio)



Questo progetto, elaborato consapevolmente dalle più alte autorità dell’impero asburgico e per manifesta volontà di Francesco Giuseppe stesso, fu poi sviluppato contro gli Italiani con una pluralità di modi. Le posteriori misure contro gli Italiani si susseguirono dal 1866 sino al 1918 e furono diverse a seconda dei luoghi, dei tempi e delle autorità (civili o militari, centrali o locali) che le promossero. Esse però seguirono tutte il solco tracciato da una sostanziale ostilità del ceto dirigente austriaco verso gli Italiani:
1) espulsioni di massa (oltre 35.000 espulsi dalla sola Venezia Giulia nei soli primi anni del Novecento, fra cui moltissimi provenienti da Trieste. Spiccarono i decreti Hohenlohe, dal nome del governatore di Trieste, appunto principe di Hohenlohe). Molti altri Italiani, sudditi asburgici, furono invece ridotti all'espatrio volontario.
2) deportazione in campi di concentramento (un numero oscillate fra 100.000 e 200.000, a seconda delle stime, di deportati durante la prima guerra mondiale, in particolare dal Trentino e dall'Istria. Famigerati divennero i nomi di lager come Katzenau, Wagna, Tapiosuli, Gollersdorf,Mitterndorf, Fischa, Mistelbach,Pottendorf, Braunau Am Inn, Beutschbrod, Traunstein, Gmund, Liebnitz,)
3) impiego di squadracce di nazionalisti Slavi nell’esercizio massivo della violenza contro gli Italiani (con innumerevoli di atti di violenza, attentati, aggressioni, omicidi ecc. Queste azioni incontrarono spesso la sostanziale tolleranza delle autorità o comunque non furono represse con efficacia)
4) repressione poliziesca
5) immigrazione di Slavi e Tedeschi nei territori italiani favorita dalle autorità imperiali, per favorire la progressiva "sommersione" degli autoctoni Italiani.
6) germanizzazione e slavizzazione scolastica e culturale (chiusura delle scuole italiane, cancellazione della toponomastica ed onomastiche italiane, proibizione della cultura italiana in ogni sua forma: fu molto grave in particolare la questione scolastica in Dalmazia)
7) privazione o limitazione dei diritti politici (le elezioni in Dalmazia videro pesantissimi brogli a favore dei nazionalisti slavi; comuni retti da Italiani furono sciolti dalle autorità austriache ecc.)
8) limitazione dei diritti civili (scioglimento d'associazioni politiche, culturali, sindacali, persone arrestate o condannate per futili motivi ecc.), formalmente motivato di solito dal pretesto della lotta all'irredentismo.

Il nazionalismo slavo fu favorito a discapito degli Italiani sudditi asburgici, sino a giungere a concepire il progetto del cosiddetto "trialismo", che avrebbe dovuto portare ad un "regno" autonomo degli Slavi del sud, accanto ad Austria ed Ungheria, naturalmente nell'ambito della struttura imperiale. Conobbe una certa diffusione anche il razzismo verso gli Italiani.
Esiste al riguardo un abbondante materiale, sia nelle fonti dell'epoca, sia nella storiografia."



IL LUNGO GENOCIDIO OVVERO LA DISTRUZIONE DEGLI ITALIANI D'ISTRIA E DALMAZIA

Le Foibe e l'Esodo sono solo l'ultima fase di un processo plurisecolare d'invasione ed occupazione da parte degli slavi di territori italiani da sempre. Esso può essere immaginato come la lenta erosione di una spiaggia sotto l'azione delle onde del mare, che crescono gradualmente, cacciando od uccidendo gli abitanti autoctoni. Si può parlare, come è stato fatto da molti, d’odio atavico verso l'Italia e la latinità da parte di sloveni e croati.
Un fenomeno storico, qualunque esso sia, deve essere colto nella sua totalità ed interezza. Se si considera la scomparsa dell’italianità nelle terre orientali, allora si rende necessario uno sguardo d’insieme plurisecolare, poiché ci si trova dinanzi ad un processo in fondo unitario. Una prospettiva di una simile ampiezza non è metodologicamente scorretta, né desueta. Essa inoltre non si fonda su considerazioni di carattere etico od ideologico su di una preminenza cronologica nell’insediamento in un dato territorio, ma su constatazioni di ordine fattuale.
Nel VII secolo d. C. Venezia Giulia e Dalmazia erano interamente latine. Nel 1945, tranne una piccola parte della prima regione, sono ormai interamente slavizzate. Il segmento temporale così individuato può essere compreso soltanto nella sua unità, poiché comprende un fenomeno storico sostanzialmente unitario, per quanto plurisecolare.


I) Un primo genocidio di popolazioni latine avvenne al momento delle migrazioni delle tribù slave, nel VII secolo d.C., ed in verità proseguì molto a lungo anche nei secoli seguenti. Zone amplissime ebbero i loro abitanti sterminati od in fuga. Alcune “enclaves” riuscirono a resistere per qualche tempo, vengono poi lentamente erose e distrutte. È sintomatico il f atto che i cosiddetti “Valacchi” o “Morlacchi”, linguisticamente affini ai Rumeni ed anch’essi neo-latini, siano quasi scomparsi da tutti i paesi degli slavi del sud.

II) Prescindendo da altri episodi intrusivi di minore portata, una fase di persecuzione anti-italiana si aprì con il secolo XIX. Venezia Giulia e Dalmazia stricto sensu erano ancora italiane nl secolo XIX, quando Francesco Giuseppe decise di “slavizzare e germanizzare con la massima energia e senza scrupolo alcuno”, secondo il verbale del Consiglio della Corona tenutosi nel 1866 quelle regioni. L’alleanza fra il progetto trialistico di Vienna ed i nazionalisti slavi, Sloveni e Croati, fu la radice di tutto ciò che poi seguì nell’area giuliana e dalmata. Pertanto, non può essere trascurato. La “pulizia etnica” condotta da Francesco Giuseppe ed appoggiata dai nazionalisti slavi condusse praticamente all’estinzione dell’italianità dàlmata, mentre sviluppò un’opera di snazionalizzione anti-italiana in Venezia Giulia, senza riuscire a portarla a termine. Si tratta di fatti ben noti ed inoppugnabili, e sui esiste amplissima documentazione.
In Dalmazia la popolazione italiana, che era superiore ad un terzo ancora ad inizio Ottocento (ma costituiva la stragrande maggioranza nelle città), si ridusse a poco più dell’1% ad inizio Novecento. Fra le molte opere di snazionalizzazione compiute dal governo viennese, vi fu la deportazione in lager di 100.000 Italiani, l’espulsione di massa di altri 50.000 dalla Venezia Giulia, e di non numero non quantificabile, ma dell'ordine di molte migliaia dalla Dalmazia. Tuttavia, furono solo alcune delle violenze anti-italiane compiute in quel periodo, che videro anche numerose uccisioni e violenze, tassazioni arbitrarie, stravolgimenti della toponomastica e dell’onomastica, chiusura di scuole italiane, immigrazione massiccia ed eterodiretta di slavi dall’interno dei Balcani, gravi brogli elettorali. Senza dimenticare poi le gravissime violenze sulla popolazione civile compiute dai soldati slavi durante gli 11 (undici) conflitti che coinvolsero l’Austria sul suolo italiano nel periodo 1796-1866.

III) Tali operazioni di pulizia etnica anti-italiana proseguirono poi, senza soluzione di continuità, nei periodo fra le due guerre in Jugoslavia (emblematici i cosiddetti “fatti di Spalato”) e poi in Venezia Giulia ed in Dalmazia nel periodo 1943-1948: 30.000 morti nelle foibe, 350.000 esuli, 50.000 deportati nei gulag. Le sole cifre dei morti sono diverse volte superiori a quelle degli slavi periti durante la guerra del 1943-1945 per opera dell’esercito italiano. La città di Zara, pressoché interamente italiana ancora nel 1943, fu intenzionalmente distrutta da bombardamenti a tappeto dell’aviazione americana, richiesti da “Ti-to”: i superstiti che non si erano già dati alla fuga dopo la distruzione della città furono scacciati o sterminati dai partigiani titini.

IV) D’altronde, l'odio slavo contro gli italiani (dovuto anche ad odio di classe oltre che etnico. Gli Sloveni ed i Croati, almeno dal secolo XIX, hanno invidiato agli Italiani di Venezia Giulia e Dalmazia il loro più elevato tenore di vita ed il maggiore livello economico, sociale e culturale.), la stessa pratica della “pulizia etnica”, l’ideologia e la mentalità sottostanti, la forma tipica del nazionalismo slavo basato sullo “ius sanguinis” e quindi per ciò stesso ostile ad ogni forma di integrazione con membri di altre etnie (Il nazionalismo slavo, basato sullo ius sanguinis, è alquanto diverso da quello di altri paesi come Francia od Italia, fondato piuttosto sulla condizione di una medesima cultura all’interno di uno stesso stato. Il nazionalismo slavo, influenzato da quello tedesco e dal suo romanticismo, si basa su di una concezione di “ethnos”, per la quale si appartiene ad una comunità per nascita; tutti gli altri sono esclusi, mentre invece quello italiano predilige una nozione di “contratto”, cosicché si è italiani per cultura e non per una fantomatica identità razziale), hanno tutti radici profonde e remote nella storia balcanica, di molti secoli.

Si devono anche porre in rilievo le conseguenze finali di tutto ciò. La guerra per Slovenia e Croazia è terminata, mentre invece l’Italia ha riportato non delle ferite, ma delle amputazioni, che non si possono rimarginare.
Due intere “regioni storiche” italiane, Venezia Giulia e Dalmazia, sono state distrutte con la pulizia etnica, e, considerando come una “regione storica” sia di fatto una sorta di micro-nazione, si può ben parlare della scomparsa di due membri di ciò che nell’Ottocento era chiamata la famiglia dei “popoli italiani”.
Venezia Giulia e Dalmazia un tempo potevano essere fatte rientrare nel novero delle cosiddette “piccole patrie”, mentre ora sono scomparse, fagocitate da Slovenia e Croazia. Mutatis mutandis, è come se il Belgio, o la Danimarca, fossero state invase, e gli abitanti scacciati o sterminati. Questo è qualcosa di diverso, e di più grave per l’umanità, di alcuni caduti in guerra. Come le persone, anche i popoli possono perire od essere uccisi: gli Slavi hanno ucciso due "popoli" italiani, ridotti ad una diaspora internazionale e privati della loro cultura peculiare, impossibilitata a sopravvivere in simili condizioni