TRIESTE 1868. UN MASSACRO DIMENTICATO DI ITALIANI
Il ben noto ordine dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo, dato il 12 novembre 1866 al consiglio della corona, di procedere «nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno» si tradusse concretamente in una molteplicità di misure contro gli italiani. Uno degli strumenti più importanti impiegati dall’impero per la snazionalizzazione del gruppo etnico italiano era il sistema d’istruzione, poiché l'insegnamento era naturalmente, allora come oggi, una forma essenziale di trasmissione e conservazione della cultura nazionale. La questione scolastica meriterebbe da sola un saggio intero e non può assolutamente essere qui affrontata, cosicché qui ci si limiterà ad una sintesi.
Il diritto per le singole nazionalità ad avere un ciclo scolastico nella propria lingua venne ad essere teoricamente sancito dall’articolo 19 della Legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini, nei regni e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero. Esso però veniva interpretato sostenendo che non imponesse un ciclo educativo completo nella singola lingua nazionale. Inoltre questa legge, come altre riguardanti la lingua nazionale, diveniva d’applicazione ed interpretazione enormemente complesse per la grande mescolanza etnica nell’impero e la pluralità di categorie e concetti linguistici a cui si faceva riferimento: Muttersprache, Umgangsprache, Vermittlungssprache, Geschäftssprache, landesübliche Sprache, Amtssprache innere, Amtssprache äussere ... Sovente si discuteva sulla definizione stessa di questi concetti e questo era comunque solo il primo passo, poiché poi bisogna applicarli ai moltissimi casi concreti d’un impero multietnico. Si rivendicavano così scuole in una determinata lingua sulla base della lingua materna, o di quella d’uso, o di quella adoperata da comunità etniche differenti per comprendersi fra loro, od anche di quella amministrativa ecc. Di fatto, l’articolo 19 era applicato alquanto arbitrariamente, sulla base dei rapporti di forza politici.
Le unità amministrative in cui vivevano quasi tutti gli italiani sudditi imperiali nel 1866-1914 erano il Tirolo del sud (il Trentino), il Litorale (la Venezia Giulia), la Dalmazia. I gradi od ordini in cui era suddiviso il sistema scolastico erano di massima i tre ancora oggi in uso: il primario, in cui si apprendono le basi dell’istruzione scritta (paragonabile alla vecchia scuola elementare italiana); il secondario, in cui si riceve una preparazione professionale specifica (analogo al ciclo di studi che in Italia prende il nome di studi superiori di primo e secondo grado, ossia alla vecchia media ed alle superiori); infine il terziario, per la preparazione ad alto livello (l’università).
La situazione peggiore si ritrovò in Dalmazia, in cui quasi tutte le scuole italiane finirono chiuse nel giro di pochi anni. Questa regione era suddivisa in 84 comuni e rimasero scuole elementari ossia di primo grado in lingua italiana soltanto nel comune di Zara (1 comune su 84!), mentre fra le scuole superiori ossia di secondo grado permasero in lingua italiana un istituto a Ragusa ed uno a Cattaro (2 comuni su 84!) e si trattava in entrambi i casi d’un solo istituto, una scuola nautica.
Anche nel Trentino-Alto Adige si ebbero tentativi di cancellare la cultura italiane nelle scuole, anche se meno incisivi. Già nel 1866 il luogotenente del Tirolo, il principe Lobkovitz, ed il consigliere aulico a Trento, il conte Hohenwart, avessero intrapreso un programma scolastico in lingua tedesca per la zona del Trentino ed al contempo alla germanizzazione della zona mistilingue posta a nord di Salorno. A dimostrazione della continuità di questa politica, nel gennaio del 1886 l’allora luogotenente del Tirolo, Widmann, scrivendo al primo ministro Taaffe sosteneva che la germanizzazione rientrava fra gli interessi generali dello stato imperiale e difendeva i tentativi di germanizzare le scuole nel Trentino. Nell’unità amministrativa detta del Tirolo, sia nel Trentino, sia nell’area mistilingue a settentrione di Salorno, presero ad operare associazioni nazionalistiche germaniche, quali il Comité zur Unterstutztung der deutschen Schule in Welschtirol, il Deutscher Schulverein, il Tiroler Volksbund, che poterono fare affidamento sull’appoggio delle autorità politiche. Il Comitè, creato nel 1867 e che si proponeva il sostegno alle istituzioni scolastiche in lingua tedesca nel Trentino, ricevette un finanziamento personale da parte di Francesco Giuseppe d’Asburgo.
A Trieste ed in generale nel Litorale (il termine amministrativo adoperato ufficialmente dalla Restaurazione per indicare la Venezia Giulia) l’apparato governativo favorì il più possibile gli istituti in lingua tedesca o slovena, a discapito di quelli in lingua italiana. Un semplice dato numerico riguardante i finanziamenti può chiarire ciò che avvenne. Nel bilancio dell'istruzione pubblica statale per il primo semestre del 1914, le spese preventivate nel cosiddetto Litorale vedevano 1.121.020 corone destinate a scuole non italiane e 154.642 corone per scuole italiane. Questo avveniva in una regione in cui, secondo gli stessi censimenti austriaci, gli Italiani costituivano la maggioranza. A Trieste, in linea di principio, le scuole comunali erano in lingua italiana, quelle statali erano invece in lingua tedesca. La distinzione è rivelatrice: il comune di Trieste, controllato dai liberali italiani, seguiva una politica, lo stato imperiale, in cui invece gli italiani erano una piccolissima minoranza, ne seguiva un’altra del tutto opposta.
Si deve aggiungere che persino i libri di testo furono soggetti a severe forme di controllo e di censura, con estremi che videro l’imposizione dello studio della letteratura italiana su testi tradotti dal tedesco oppure la proibizione di studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta "troppo italiana".
Per queste ragioni gli italiani si posero fra i loro obiettivi principali la promozione di istituti scolastici ed educativi destinati alla difesa della propria cultura ed identità.
Il diritto per le singole nazionalità ad avere un ciclo scolastico nella propria lingua venne ad essere teoricamente sancito dall’articolo 19 della Legge fondamentale dello Stato del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini, nei regni e Paesi rappresentati nel Consiglio dell’Impero. Esso però veniva interpretato sostenendo che non imponesse un ciclo educativo completo nella singola lingua nazionale. Inoltre questa legge, come altre riguardanti la lingua nazionale, diveniva d’applicazione ed interpretazione enormemente complesse per la grande mescolanza etnica nell’impero e la pluralità di categorie e concetti linguistici a cui si faceva riferimento: Muttersprache, Umgangsprache, Vermittlungssprache, Geschäftssprache, landesübliche Sprache, Amtssprache innere, Amtssprache äussere ... Sovente si discuteva sulla definizione stessa di questi concetti e questo era comunque solo il primo passo, poiché poi bisogna applicarli ai moltissimi casi concreti d’un impero multietnico. Si rivendicavano così scuole in una determinata lingua sulla base della lingua materna, o di quella d’uso, o di quella adoperata da comunità etniche differenti per comprendersi fra loro, od anche di quella amministrativa ecc. Di fatto, l’articolo 19 era applicato alquanto arbitrariamente, sulla base dei rapporti di forza politici.
Le unità amministrative in cui vivevano quasi tutti gli italiani sudditi imperiali nel 1866-1914 erano il Tirolo del sud (il Trentino), il Litorale (la Venezia Giulia), la Dalmazia. I gradi od ordini in cui era suddiviso il sistema scolastico erano di massima i tre ancora oggi in uso: il primario, in cui si apprendono le basi dell’istruzione scritta (paragonabile alla vecchia scuola elementare italiana); il secondario, in cui si riceve una preparazione professionale specifica (analogo al ciclo di studi che in Italia prende il nome di studi superiori di primo e secondo grado, ossia alla vecchia media ed alle superiori); infine il terziario, per la preparazione ad alto livello (l’università).
La situazione peggiore si ritrovò in Dalmazia, in cui quasi tutte le scuole italiane finirono chiuse nel giro di pochi anni. Questa regione era suddivisa in 84 comuni e rimasero scuole elementari ossia di primo grado in lingua italiana soltanto nel comune di Zara (1 comune su 84!), mentre fra le scuole superiori ossia di secondo grado permasero in lingua italiana un istituto a Ragusa ed uno a Cattaro (2 comuni su 84!) e si trattava in entrambi i casi d’un solo istituto, una scuola nautica.
Anche nel Trentino-Alto Adige si ebbero tentativi di cancellare la cultura italiane nelle scuole, anche se meno incisivi. Già nel 1866 il luogotenente del Tirolo, il principe Lobkovitz, ed il consigliere aulico a Trento, il conte Hohenwart, avessero intrapreso un programma scolastico in lingua tedesca per la zona del Trentino ed al contempo alla germanizzazione della zona mistilingue posta a nord di Salorno. A dimostrazione della continuità di questa politica, nel gennaio del 1886 l’allora luogotenente del Tirolo, Widmann, scrivendo al primo ministro Taaffe sosteneva che la germanizzazione rientrava fra gli interessi generali dello stato imperiale e difendeva i tentativi di germanizzare le scuole nel Trentino. Nell’unità amministrativa detta del Tirolo, sia nel Trentino, sia nell’area mistilingue a settentrione di Salorno, presero ad operare associazioni nazionalistiche germaniche, quali il Comité zur Unterstutztung der deutschen Schule in Welschtirol, il Deutscher Schulverein, il Tiroler Volksbund, che poterono fare affidamento sull’appoggio delle autorità politiche. Il Comitè, creato nel 1867 e che si proponeva il sostegno alle istituzioni scolastiche in lingua tedesca nel Trentino, ricevette un finanziamento personale da parte di Francesco Giuseppe d’Asburgo.
A Trieste ed in generale nel Litorale (il termine amministrativo adoperato ufficialmente dalla Restaurazione per indicare la Venezia Giulia) l’apparato governativo favorì il più possibile gli istituti in lingua tedesca o slovena, a discapito di quelli in lingua italiana. Un semplice dato numerico riguardante i finanziamenti può chiarire ciò che avvenne. Nel bilancio dell'istruzione pubblica statale per il primo semestre del 1914, le spese preventivate nel cosiddetto Litorale vedevano 1.121.020 corone destinate a scuole non italiane e 154.642 corone per scuole italiane. Questo avveniva in una regione in cui, secondo gli stessi censimenti austriaci, gli Italiani costituivano la maggioranza. A Trieste, in linea di principio, le scuole comunali erano in lingua italiana, quelle statali erano invece in lingua tedesca. La distinzione è rivelatrice: il comune di Trieste, controllato dai liberali italiani, seguiva una politica, lo stato imperiale, in cui invece gli italiani erano una piccolissima minoranza, ne seguiva un’altra del tutto opposta.
Si deve aggiungere che persino i libri di testo furono soggetti a severe forme di controllo e di censura, con estremi che videro l’imposizione dello studio della letteratura italiana su testi tradotti dal tedesco oppure la proibizione di studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta "troppo italiana".
Per queste ragioni gli italiani si posero fra i loro obiettivi principali la promozione di istituti scolastici ed educativi destinati alla difesa della propria cultura ed identità.
A Trieste, tra il 10 e il 12 luglio 1868, vi furono pacifiche manifestazioni a favore della libertà d'insegnamento successive a una petizione firmata da 5.858 cittadini e presentata al consiglio cittadini, in cui si richiedeva il diritto di usare la lingua italiana nelle scuole statali. A queste richieste, condotte in piena legalità, i nazionalisti sloveni e le autorità imperiali fra loro alleati risposero con la violenza.
Il 12 luglio, si celebrava la festa dei SS. Ermacora e Fortunato, con gran afflusso di folla a Rojano, che in quell'epoca era un villaggio abitato da sloveni e nel quale si era deciso di festeggiare l’anniversario della fondazione del reparto militare locale, appunto i territoriali del borgo. Durante i festeggiamenti, svoltisi alla presenza degli ufficiali della milizia e dei miliziani, erano giunti anche altri sloveni di paesi dell’entroterra quali S. Giovanni e Longera. Esaltati dai discorsi nazionalistici, avevano deciso di scendere a Trieste.
Partì così il giorno seguente una minacciosa parata in armi attraverso via del Torrente (ora Carducci) e l'Ac¬quedotto, con gli ufficiali della milizia, in divisa, tra i partecipanti. Marciavano in coda altri militi della territoriale, in uniforme, quasi a fare da scorta. In testa era stata posta quella che gli sloveni ed i croati consideravano la bandiera nazionale degli slavi (il tricolore bianco, rosso, blu), il cui impiego nell’impero asburgico era consentito mentre veniva rigorosamente proibito quello del tricolore nazionale italiano. A Trieste si era frattanto diffusa fra la popolazione la paura per l’aggressione imminente, la cui notizia era pervenuta. Correvano voci per la città che gli sloveni sarebbero venuti per attaccare gli italiani, in particolare gli ebrei, molto odiati nel contado.
L’aggressione era però appoggiata dalle autorità imperiali, nelle persone del luogotenente del Litorale, Eduard Freiherr von Bach, e del comandante della polizia di Trieste, il famigerato Krauss. Non solo nessun tentativo venne fatto per fermare la massa dei miliziani territoriali sloveni, ma essa fu rafforzata da reparti delle guardie di Trieste. Le autorità imperiali sapevano benissimo che la grande maggioranza della cittadinanza triestina era d’idee nazionali italiane, a differenza degli sloveni che erano invece sostenitori dell’impero che li appoggiava e favoriva, pertanto avevano deciso di sfruttare la circostanza per “impartire una lezione” agli italiani.
Il 12 luglio, si celebrava la festa dei SS. Ermacora e Fortunato, con gran afflusso di folla a Rojano, che in quell'epoca era un villaggio abitato da sloveni e nel quale si era deciso di festeggiare l’anniversario della fondazione del reparto militare locale, appunto i territoriali del borgo. Durante i festeggiamenti, svoltisi alla presenza degli ufficiali della milizia e dei miliziani, erano giunti anche altri sloveni di paesi dell’entroterra quali S. Giovanni e Longera. Esaltati dai discorsi nazionalistici, avevano deciso di scendere a Trieste.
Partì così il giorno seguente una minacciosa parata in armi attraverso via del Torrente (ora Carducci) e l'Ac¬quedotto, con gli ufficiali della milizia, in divisa, tra i partecipanti. Marciavano in coda altri militi della territoriale, in uniforme, quasi a fare da scorta. In testa era stata posta quella che gli sloveni ed i croati consideravano la bandiera nazionale degli slavi (il tricolore bianco, rosso, blu), il cui impiego nell’impero asburgico era consentito mentre veniva rigorosamente proibito quello del tricolore nazionale italiano. A Trieste si era frattanto diffusa fra la popolazione la paura per l’aggressione imminente, la cui notizia era pervenuta. Correvano voci per la città che gli sloveni sarebbero venuti per attaccare gli italiani, in particolare gli ebrei, molto odiati nel contado.
L’aggressione era però appoggiata dalle autorità imperiali, nelle persone del luogotenente del Litorale, Eduard Freiherr von Bach, e del comandante della polizia di Trieste, il famigerato Krauss. Non solo nessun tentativo venne fatto per fermare la massa dei miliziani territoriali sloveni, ma essa fu rafforzata da reparti delle guardie di Trieste. Le autorità imperiali sapevano benissimo che la grande maggioranza della cittadinanza triestina era d’idee nazionali italiane, a differenza degli sloveni che erano invece sostenitori dell’impero che li appoggiava e favoriva, pertanto avevano deciso di sfruttare la circostanza per “impartire una lezione” agli italiani.
Nella notte del 13 luglio si trovavano alcune centinaia di italiani nella zona centrale dei Portici di Chiozza: contro di loro fu predisposto un piano operativo preciso per massacrarli.
L’intento era di assalire gli italiani nella zona dei Portici, ributtandoli lungo via del Torrente (ora via Carducci), verso la stazione, per poi aggredirli con reparti provenienti dalle caserme (ora piazza Oberdan) da un lato e, dall'altro, da reparti spostati nella notte dal posto di guardia di via dei Gelsi (ora via F.lli Nordio) lungo l'attuale via Crispi, alle spalle dei Portici. Reparti militari minori avrebbero bloccato la Corsia Stadion (attuale via Battisti) e l'Acquedotto, nonché via San Francesco. Sarebbe stata libera così una sola via di fuga in direzione di piazza San Giovanni. Furono concentrati inoltre gruppi di violenti nella zona della vecchia Dogana (tra l'attuale piazza della Posta e via Geppa) in modo da provocarvi delle risse.
Dopo questa accurata preparazione, fu infine dato il segnale d’attacco mediante uno sparo. I miliziani sloveni ed i poliziotti aggredirono gli italiani, pacificamente riuniti, senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione. L’assalto militare fu compiuto con le sciabole ed i fucili a baionetta inastata.
Comandava il reparto un ufficiale che aveva svolto operazioni di repressione contro i patrioti nel Veneto prima del 1866, il quale guidò l’assalto gridando: «Dagli, dagli giù a questi cani! Ammazzateli: rispondo io!». I territoriali sloveni invece urlavano: «Morte agli italiani ed agli ebrei maledetti».
Il pogrom contro gli italiani provocò la morte del barone Rodolfo Parisi, del cadetto sottufficiale Francesco Sussa (era in borghese ed in licenza e fu ucciso da un colpo di fucile alle spalle mentre fuggiva) e dell’operaio Niccolò Zecchia. Il barone Parisi fu trafitto con 25 colpi di baionetta e finito con uno stocco in dotazione alle guardie imperiali. Anche il giovane (aveva 23 anni) Emilio Bernardini, figlio di un noto commerciante triestino, morì per i postumi di un violento pestaggio subito in quella circostanza, quando fu duramente percosso con colpi di calcio di fucile al torace. Ciò gli aveva provocato una emotisi, che lo aveva ridotto ad una lunga agonia durata per 54 giorni prima della morte.
Inoltre furono feriti gravemente, Ignazio Puppi, Giobatta Lucchini Giovanni Krammer, Pietro Bellafronte, Antonio Rustia. Emiiio Rupnik, Edoardo Offacio, Giulio Cazzatura, Giacomo Katteri, Giuseppe Santinelli, Pietro Mosettig. Giovanni Stancich, Giuseppe Benporath della comunità ebraica cittadina, Teodoro Damillo. Nicolo Modretzky, Giovanni Schmutz, Edgardo Rascovich, Angelo Crosato, Luigi Grusovin, Ernesto Ehrenfreund, persino il cittadino svizzero Gaspare Hans. I feriti “leggeri” furono invece circa 200 (duecento).
L’intento era di assalire gli italiani nella zona dei Portici, ributtandoli lungo via del Torrente (ora via Carducci), verso la stazione, per poi aggredirli con reparti provenienti dalle caserme (ora piazza Oberdan) da un lato e, dall'altro, da reparti spostati nella notte dal posto di guardia di via dei Gelsi (ora via F.lli Nordio) lungo l'attuale via Crispi, alle spalle dei Portici. Reparti militari minori avrebbero bloccato la Corsia Stadion (attuale via Battisti) e l'Acquedotto, nonché via San Francesco. Sarebbe stata libera così una sola via di fuga in direzione di piazza San Giovanni. Furono concentrati inoltre gruppi di violenti nella zona della vecchia Dogana (tra l'attuale piazza della Posta e via Geppa) in modo da provocarvi delle risse.
Dopo questa accurata preparazione, fu infine dato il segnale d’attacco mediante uno sparo. I miliziani sloveni ed i poliziotti aggredirono gli italiani, pacificamente riuniti, senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione. L’assalto militare fu compiuto con le sciabole ed i fucili a baionetta inastata.
Comandava il reparto un ufficiale che aveva svolto operazioni di repressione contro i patrioti nel Veneto prima del 1866, il quale guidò l’assalto gridando: «Dagli, dagli giù a questi cani! Ammazzateli: rispondo io!». I territoriali sloveni invece urlavano: «Morte agli italiani ed agli ebrei maledetti».
Il pogrom contro gli italiani provocò la morte del barone Rodolfo Parisi, del cadetto sottufficiale Francesco Sussa (era in borghese ed in licenza e fu ucciso da un colpo di fucile alle spalle mentre fuggiva) e dell’operaio Niccolò Zecchia. Il barone Parisi fu trafitto con 25 colpi di baionetta e finito con uno stocco in dotazione alle guardie imperiali. Anche il giovane (aveva 23 anni) Emilio Bernardini, figlio di un noto commerciante triestino, morì per i postumi di un violento pestaggio subito in quella circostanza, quando fu duramente percosso con colpi di calcio di fucile al torace. Ciò gli aveva provocato una emotisi, che lo aveva ridotto ad una lunga agonia durata per 54 giorni prima della morte.
Inoltre furono feriti gravemente, Ignazio Puppi, Giobatta Lucchini Giovanni Krammer, Pietro Bellafronte, Antonio Rustia. Emiiio Rupnik, Edoardo Offacio, Giulio Cazzatura, Giacomo Katteri, Giuseppe Santinelli, Pietro Mosettig. Giovanni Stancich, Giuseppe Benporath della comunità ebraica cittadina, Teodoro Damillo. Nicolo Modretzky, Giovanni Schmutz, Edgardo Rascovich, Angelo Crosato, Luigi Grusovin, Ernesto Ehrenfreund, persino il cittadino svizzero Gaspare Hans. I feriti “leggeri” furono invece circa 200 (duecento).
Il massacro provocò comprensibilmente sgomento nella popolazione italiana. Fu indetta una giunta speciale della Dieta triestina ed il solo funerale del barone Parisi, svoltosi nella cattedrale di San Giusto, raccolse 20 mila persone.
Non per questo cessò la politica di de-italianizzazione dell’impero (che sempre rifiutò la fondazione di una università italiana) e la violenza politica contro gli italiani. Giusto per portare un altro esempio attinente a Trieste, il 13 marzo del 1913 un gruppo di membri della società universitaria slovena “Balcan” condusse una sorta di spedizione paramilitare contro la Scuola Superiore di Commercio Pasquale Revoltella, che culminò con una sparatoria in cui uno studente italiano venne ferito a morte.
Casi analoghi avvenivano anche lontano da Trieste. Sin dal 1848 gli Italiani di Trieste sollecitavano l’apertura di una università italiana nella grande città costiera, per dimensioni la terza dell’impero, dopo Vienna e Praga, ma tale richiesta fu sempre respinta. Infine, nel 1904, dopo un’attesa di 56 anni, Vienna concesse la fondazione non di una università, ma soltanto di una facoltà di giurisprudenza in lingua italiana, e non a Trieste, bensì nella lontana e germanica Innsbruck. Già questa scelta palesava la volontà austriaca d’impedire il più possibile la formazione e conservazione della cultura italiana nei propri territori.
Comunque, il 3 novembre del 1904 diverse centinaia di studenti italiani si trovavano ad Innsbruck per assistere all’apertura dell’anno universitario di tale facoltà di giurisprudenza. Tuttavia, al loro arrivo nella città austriaca, i nazionalisti e pangermanisti locali diedero aperta prova della loro ostilità verso la fondazione di tale facoltà. La polizia di Innsbruck, su pressioni delle autorità politiche locali, entrò nell’aula, in cui il professor Angelo de Gubernatis stava tenendo il discorso inaugurale, ordinando d’interrompere la cerimonia.
Gli studenti italiani si limitarono allora ad offrire un banchetto in onore del prof. de Gubernatis, per giunta con previo accordo delle autorità. Ciò bastò tuttavia a suscitare la reazione violentissima degli abitanti di Innsbruck, i quali compirono una specie di insurrezione. Gli italiani presenti in città furono scacciati ed i loro beni saccheggiati, mentre gli studenti furono circondati all’interno della sede università e stretti d’assedio con armi da fuoco. Intervenne infine l’esercito, il quale però arrestò tutti gli studenti italiani (fra cui Cesare Battisti ed Alcide De Gasperi), malgrado questi non avessero compiuto alcun reato e si fosse limitati a difendersi dall'aggressione violentissima dei cittadini di Innsbruck, che non patirono invece arresti. In seguito a tale pogrom anti-italiano fu poi ordinata la chiusura della facoltà di giurisprudenza.
Beninteso, questi furono solo alcuni dei moltissimi episodi di violenza politica di cui furono vittime gli italiani nel periodo 1848-1918 nei territori controllati dall’impero asburgico.
Non per questo cessò la politica di de-italianizzazione dell’impero (che sempre rifiutò la fondazione di una università italiana) e la violenza politica contro gli italiani. Giusto per portare un altro esempio attinente a Trieste, il 13 marzo del 1913 un gruppo di membri della società universitaria slovena “Balcan” condusse una sorta di spedizione paramilitare contro la Scuola Superiore di Commercio Pasquale Revoltella, che culminò con una sparatoria in cui uno studente italiano venne ferito a morte.
Casi analoghi avvenivano anche lontano da Trieste. Sin dal 1848 gli Italiani di Trieste sollecitavano l’apertura di una università italiana nella grande città costiera, per dimensioni la terza dell’impero, dopo Vienna e Praga, ma tale richiesta fu sempre respinta. Infine, nel 1904, dopo un’attesa di 56 anni, Vienna concesse la fondazione non di una università, ma soltanto di una facoltà di giurisprudenza in lingua italiana, e non a Trieste, bensì nella lontana e germanica Innsbruck. Già questa scelta palesava la volontà austriaca d’impedire il più possibile la formazione e conservazione della cultura italiana nei propri territori.
Comunque, il 3 novembre del 1904 diverse centinaia di studenti italiani si trovavano ad Innsbruck per assistere all’apertura dell’anno universitario di tale facoltà di giurisprudenza. Tuttavia, al loro arrivo nella città austriaca, i nazionalisti e pangermanisti locali diedero aperta prova della loro ostilità verso la fondazione di tale facoltà. La polizia di Innsbruck, su pressioni delle autorità politiche locali, entrò nell’aula, in cui il professor Angelo de Gubernatis stava tenendo il discorso inaugurale, ordinando d’interrompere la cerimonia.
Gli studenti italiani si limitarono allora ad offrire un banchetto in onore del prof. de Gubernatis, per giunta con previo accordo delle autorità. Ciò bastò tuttavia a suscitare la reazione violentissima degli abitanti di Innsbruck, i quali compirono una specie di insurrezione. Gli italiani presenti in città furono scacciati ed i loro beni saccheggiati, mentre gli studenti furono circondati all’interno della sede università e stretti d’assedio con armi da fuoco. Intervenne infine l’esercito, il quale però arrestò tutti gli studenti italiani (fra cui Cesare Battisti ed Alcide De Gasperi), malgrado questi non avessero compiuto alcun reato e si fosse limitati a difendersi dall'aggressione violentissima dei cittadini di Innsbruck, che non patirono invece arresti. In seguito a tale pogrom anti-italiano fu poi ordinata la chiusura della facoltà di giurisprudenza.
Beninteso, questi furono solo alcuni dei moltissimi episodi di violenza politica di cui furono vittime gli italiani nel periodo 1848-1918 nei territori controllati dall’impero asburgico.